Con lo slittamento della Mifid 2 si è persa un’opportunità

Sanna
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L’introduzione della nuova direttiva europea sconvolge un modello distributivo che si è consolidato negli ultimi trent’anni. E i recenti episodi conseguenti al salvataggio delle quattro banche sono i sintomi di una distribuzione ancora troppo carente in termini di adeguatezza. Parla Antonello Sanna, ad di SCM SIM.

La Mifid 2 slitta al 2018. Questa lascia meno spazio ad ambiguità interpretative rispetto alla precedente ma evidentemente l’industria non è pronta. A cosa si deve questo slittamento?

Con lo slittamento della Mifid 2 abbiamo perso un’opportunità. È indubbio che l’adozione della Mifid comporti una serie di modifiche onerose per gli intermediari, ma i recenti episodi conseguenti al salvataggio delle quattro banche sono i sintomi di una distribuzione ancora fortemente carente in termini di adeguatezza. Strumenti con elevato grado di rischio a clientela con profili decisamente retail. Un disastro. Il punto è che l’introduzione della Mifid 2 sconvolge un modello distributivo che si è consolidato nell’arco degli ultimi trent’anni, generando non poche incertezze. La reazione, peraltro comprensibile, ma non giustificabile, è di privilegiare lo status quo, rallentando il cambiamento per quanto possibile.

L’obiettivo è assicurare più tutela ai risparmiatori e più trasparenza in tema di costi e commissioni e questo non potrà che creare qualche problema per le banche e le reti che sulla strutture commissionali fanno grossi margini. Come si strutturerà l’industria? Come si potrà arrivare a capo della questione degli inducement?

È facilmente immaginabile che la trasparenza sulle commissioni genererà non poche resistenze da parte della clientela. È il grande timore latente dell’industria del risparmio gestito. Ritengo che, generalizzando, il mercato si segmenterà in due grandi bacini: il retail e l’affluent o private che dir si voglia. Il retail continuerà a privilegiare la capillarità, il brand, il rapporto con il banker e accetterà un livello commissionale simile all’attuale che su cifre modeste, in termini assoluti, non è particolarmente incisivo. Per capire meglio, un investitore con un patrimonio di 100.000 euro che paga il 2%, tutto sommato paga 2.000 euro per essere seguito da un banker. Una cifra accettabile. Diverso è per clienti con qualche milione di euro che non accetteranno di pagare cifre significative se non a fronte di valore aggiunto tangibile. Questo segmento cercherà consulenti che siano indipendenti, con un eccellente track record e che non abbiano condizionamenti legati al prodotto come i rebates dagli emittenti.

Come vi state muovendo e come funziona la vostra struttura di advisory? 

Noi abbiamo scelto dall’origine di servire pochi clienti e con situazioni complesse, in contrapposizione ai modelli industriali. In Scm diciamo che non gestiamo (solo) denaro, ma siamo a fianco delle famiglie nella gestione di tutto il patrimonio. Il singolo cliente non ha senso se non inserito nel contesto familiare e aziendale, dove si possono comprendere correttamente i rischi e gestire la protezione. È un concetto che piace molto ai clienti che iniziano un percorso di consapevolezza sui costi, sulla natura degli investimenti e sui rischi connessi. Tutto quello che si conosce si vive con maggiore serenità e capacità decisionale. È il nostro impegno verso la clientela. 

Quali sono i vostri numeri?

I numeri ci stanno dando ragione. Nati da un’iniziativa privata, senza azionisti istituzionali, abbiamo un miliardo di euro di asset fra gestione e consulenza, un cliente medio da 2 milioni di patrimonio, 25 banker e chiudiamo il 2015 con più di 6 milioni di fatturato e in utile. Dopo soli 5 anni e con un modello di business assolutamente nuovo e unico possiamo dire che siamo sulla strada giusta.