Il CET1 e il coefficiente di liquidità patrimoniale non lanciavano segnali d’allarme. Dan Lustig di LGIM prova ad analizzare a mente fredda le possibili cause che hanno portato all’acquisizione forzata da parte di UBS.
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La polvere che si è sollevata nel sistema bancario e che ha portato all’acquisizione forzata di Credit Suisse da parte di UBS si sta posando. E ciò permette agli esperti del settore di fare le prime valutazioni a freddo sull’accaduto e sulle possibili conseguenze. Ormai tutti sanno che questo istituto, dopo 167 anni di storia, è imploso, causando un’alta volatilità nel segmento delle obbligazioni bancarie e aggiungendo ulteriore carne al fuoco per i policymaker degli istituti di credito centrali. Quello che però in molti si stanno ancora chiedendo è se Credit Suisse sia stato un caso isolato o se un episodio simile possa ripetersi, andando a colpire altri player europei, ora che i crescenti tassi d’interesse stanno mettendo in luce le debolezze del sistema.
Il contesto del caso Credit Suisse
Secondo l’analisi di Dan Lustig, senior Credit analyst di Legal & General Investment Management (LGIM), il primo dato da considerare quando si esamina il caso Credit Suisse è il suo rapporto common equity tier 1 (CET1), un indicatore che misura la capacità di un istituto bancario di sopportare una crisi finanziaria confrontando il capitale di questa rispetto agli asset aggiustati per il rischio. “Alla fine del quarto trimestre del 2022, il CET1 comunicato dalla banca svizzera era poco superiore al 14%; pertanto, in quel momento non presentava problemi di insolvenza”, dice l’esperto.
Lo stesso si può dire circa la qualità degli asset di Credit Suisse, dato che la percentuale di crediti deteriorati era di appena l’1,3%, addirittura uno dei più bassi registrati dalle banche europee. “A questo punto viene da chiedersi se i problemi di CS non fossero nella liquidità, ma il suo coefficiente di liquidità patrimoniale (LCR) registrato a marzo era del 150%, molto superiore a quello di molti altri istituti”, dice Lustig. Questa misura, il cui valore minimo consentito è il 100%, fu introdotta come parte della normativa in risposta alla grande crisi finanziaria del 2008, con lo scopo di imporre alle banche la creazione di un cuscinetto di asset liquidi che le proteggesse nei periodi di maggiore stress di mercato. “Se si andasse a ripetere queste osservazioni per tutte le banche europee accomunabili a Credit Suisse, si potrebbe dire che, se proprio doveva esserci una crisi bancaria, siamo stati fortunati ad averla vissuta in un periodo come quello attuale”, continua. “Infatti, i parametri visti sopra segnalano che il rischio sistemico è generalmente limitato e i bilanci, la qualità degli asset, la posizione patrimoniale e tutta un’altra serie di indicatori suggeriscono che la possibilità di un contagio è generalmente bassa”, speiga.
Tuttavia, se quanto visto sopra ricostruiva l’immagine di un istituto in buona salute, che cosa ha provocato il fallimento di Credit Suisse?
Crollo della fiducia
“Il settore del banking si basa sulla fiducia; in quanto le corse agli sportelli accadono quando la fiducia dei depositanti sulla capacità di recuperare i propri fondi crolla”, dice l’esperto di LGIM. “Questa è sempre stata una verità assodata fin dal giorno in cui è stata fondata la prima banca; tuttavia, a fare la differenza rispetto al passato è la straordinaria velocità con cui si diffondono le informazioni, che oggi è molto superiore anche a quella che si registrava nel 2008”, analizza.
Credit Suisse, ha vissuto un episodio simile a una corsa agli sportelli sul finire del 2022, che l’ha portata, a seguito di una “Twitterstorm”, a perdere circa il 37% dei suoi depositi. In quel periodo, l’LCR era sceso al 120%, ma aveva recuperato in fretta, tornando al 144% e poi al 150% nel mese di marzo, come già specificato.
“Alla luce di quanto si è verificato dopo, la prima reazione è stata quella di mettere in dubbio le assunzioni circa l’LCR, chiedendo ai regolatori di ricalibrarlo in breve tempo. Tuttavia, questo ha anche fornito un assist per trovare le risposte agli interrogativi sul crollo della banca svizzera, in quanto, una volta tolto il parametro dall’equazione, hanno iniziato a emergere le ragioni per le cui Credit Suisse era effettivamente un caso particolare rispetto ai suoi omologhi europei”, dice l’esperto.
Profittabilità e sicurezza
“La conclusione a cui noi di LGIM siamo arrivati è che Credit Suisse sia andata incontro al fallimento a causa della sua natura atipica di banca in perdita, nel bel mezzo di una ristrutturazione che l’avrebbe allontanata dalla qualifica di ‘banca d’investimento’”, spiega Lustig. “Se a questo si aggiunge che presso l’istituto era detenuta una grande quantità di depositi non assicurati, diventa chiaro come una corsa agli sportelli potesse avere effetti particolarmente distruttivi, dato che la recessione che sembra ormai imminente, e che a nostro avviso riguarderà sia Stati Uniti che Europa, porterà gli investitori a guardare maggiormente alla qualità degli asset e alle strategie per ottenere profitto e meno ai finanziamenti e alla liquidità”, dice. “Nonostante ciò, riteniamo che le grandi banche del Vecchio Continente siano posizionate meglio rispetto a quanto visto con la GFC del 2008 per superare un contesto macroeconomico difficile come quello odierno”, conclude Lustig.