Dall’inflazione alla stagflazione, crescono le preoccupazioni sui mercati

Inflazione
Nathan Dumlao (Unsplash)

Paventato da qualche mese, il rischio stagflazione prende forma non tanto (in maniera esplicita) nelle prospettive degli analisti, quanto nel discorso intorno ai “timori del mercato”. Un fenomeno che, a oggi, è ancora tratteggiato in via ipotetica sulla scorta delle rilevazioni (ancora plumbee) sull’andamento dell’inflazione. I dati pubblicati ieri dall’ufficio di statistica tedesco danno un tasso in aumento dell’8,7% annuo rispetto al 7,8% di aprile, in crescita l’inflazione anche in Spagna e in Belgio, mentre il dato sull’Italia e sulla Francia è atteso per oggi.  In questa costante risalita dell’indice emerge anche uno spostamento “terminologico” in quando “dal monopolio della parola ‘inflazione’ si sta passando poco alla volta al ‘duopolio’ della ‘stagflazione’, con l'aggiunta non marginale del senso da dare alla parola ‘stag’, ossia rallentamento marcato o recessione”, commenta Antonio Cesarano, chief global strategist, Intermonte.

Uno spostamento di prospettiva interessante arriva da AcomeA SGR che, partendo dal presupposto che il fenomeno appaia “meno probabile” che negli anni ’70, indica come “più che la stagflazione in sé” a preoccupare il mercato sia “la direzione di marcia”. Siamo davvero in una congiuntura in cui l’inflazione continua a sorprendere al rialzo mentre la crescita delude le attese? Si domanda Pasquale Diana, head of Macro Research di AcomeA SGR. A rispondere sono i dati che vedono da un lato aspettative di crescita in Cina e Europa passate rispettivamente dal 6 e 4% all’1% mentre i prezzi sono cresciuti “a un tasso vicino al 10% annualizzato negli ultimi tre mesi” nell’Eurozona e negli Stati Uniti.

Tutto in mano alle banche centrali?

E qui entrano in gioco le banche centrali, la cui priorità è “contenere l’inflazione, anche indebolendo la domanda se necessario”. Per questo motivo la FED ha già guidato il mercato verso due rialzi di 50 bp a giugno e la BCE dovrebbe operare un rialzo di 25 bp a luglio. “Va ricordato che l’inflazione di per sé non è un problema per il mercato” continua Diana, ma “un’inflazione così elevata obbliga le banche centrali ad alzare i tassi senza particolare riguardo per quello che succede alla crescita”. Da qui i timori stagflattivi. Secondo Diana, tuttavia, tre fattori possono “interrompere questa apparente spirale negativa”. In primis “un rallentamento del momentum dell’inflazione”, riferito non tanto alle dinamiche anno-su-anno ma a quelle su base congiunturale (“quindi mensile”). Un altro fattore è legato ai “segnali chiari che i rialzi sui tassi stanno già avendo degli effetti sull’economia, e quindi le banche centrali iniziano a usare un tono meno hawkish”. Infine, “un miglioramento delle prospettive di crescita globali, in particolare nelle aree (Cina, Europa) dove i rischi sembrano maggiori”. L’esperto riporta come esistano già “(timidi) segnali che lasciano ben sperare”, legati alle dinamiche dei salari USA e alla graduale uscita dai lockdown in Cina.

Inflazione negli USA e spostamento sui titoli Value

E appunto negli USA, seppur molto al di sotto del picco inflazionistico degli anni ’80, l’inflazione promette di “persistere al di sopra dell’obiettivo del 2% indicato dalla FED”. I motivi, secondo Marco Pirondini, head of Equities US Portfolio manager di Amundi AM, sono da ricondurre a un problema di carenza di manodopera (legato anche all’invecchiamento della popolazione); alla “rinnovata attenzione” a temi come la sicurezza energetica e la difesa, stimolati dal conflitto in Ucraina; e al fatto che “la Cina non esporta più deflazione” (dal momento che le previsioni sulla contrazione della forza lavoro in Cina si tradurrà in un aumento dei prezzi delle esportazioni). Da queste premesse le implicazioni per gli investimenti vedono, secondo Pirondini, “una rotazione verso i settori che dovrebbero mettere a segno una buona performance in periodi di inflazione elevata”, in particolare le azioni. Amundi AM suggerisce quindi un “percorso” in quattro “movimenti” per l’azionario, ossia uno spostamento “dal futuro al presente”, che vede gli investitori tornare “premiare le società basandosi sui loro fondamentali attuali piuttosto che al loro potenziale di guadagno in un lontano futuro”; una nuova focalizzazione sulle “valutazioni”, per cui si assisterà a uno spostamento verso i titoli Value; un rinnovato interesse per la gestione attiva (alla luce di un S&P 500 che presenta “livelli di concentrazione mai osservati in passato”); e infine l’allargamento dal “mercato statunitense al mercato globale”.

La risposta del mercato obbligazionario

Intanto il mercato obbligazionario, già dagli inizi di aprile, sta lavorando sullo scenario recessivo Us intorno alla metà del 2023, afferma Cesarano di Intermonte che sottolinea come lo stesso mercato obbligazionario “da diverso tempo sconta uno scenario di forte accelerazione dei rialzi Fed per quest'anno e di andamento opposto nel 2023, ossia esattamente quanto inizia a profilarsi anche da parte dell'ultra falco Bullard, che chiede di affrettare i rialzi per portare i Fed Funds target anche fino al 3,5% quest'anno, per prepararsi a fare l'opposto nel 2023”. Questo significa, secondo l’esperto, che il “mondo bond” ha fiutato “la fretta della Fed e l'ha già scontata, intuendo probabilmente che parte della fretta è dettata dalla scadenza elettorale di novembre in Usa”.

I mercati azionari, per parte loro, “si trovano ancora in una fase di potenziali ulteriori cali, dal momento che la fase di revisione peggiorativa degli utili Us è appena iniziata”.