In attesa della Fed: i pro e i contro di una mossa dovuta

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La Federal Reserve è tornata a scuotere i mercati. Venerdì scorso, all’Harvad University, il governatore Janet Yellen ha usato toni cauti, ma precisi: “È appropriato che la Fed aumenti gradualmente nel tempo e con cautela il tasso d'interesse overnight. Ed è probabile che tale mossa sia opportuna nei prossimi mesi", ha detto, sottolineando che gli indicatori mostrano come l'economia USA sia in ripresa dopo un primo trimestre difficile. Secondo gli esperti, l’ipotesi di un incremento nel breve periodo sembra ormai sempre più probabile. Il FOMC di giugno torna sotto i riflettori. E le speculazioni su un rialzo dei tassi aumentano di giorno in giorno. Ma “non c’è niente di scontato”, commenta Alessandro Rosina, gestore di Aletti Gestielle SGR. “Il referendum del 23 giugno sulla permanenza della Gran Bretagna nella UE e la crescita economica modesta registrata nel quarto trimestre 2015 e primo trimestre 2016 potrebbero convincere la Fed a posticipare il secondo rialzo alla riunione del 27 luglio”.

Anche Andrea Conti, responsabile macro research di Eurizon Capital sembra d’accordo: “La Fed preferirà probabilmente rimandare la mossa almeno a luglio, non fosse altro per non rischiare la sovrapposizione con un altro evento fonte di potenziale volatilità come il referendum UK. In questo caso però il FOMC del 15 giugno potrebbe essere utilizzato per preparare il terreno a un rialzo in luglio, dandone indicazione nel comunicato e argomentando le ragioni in conferenza stampa. A ogni modo, quindi, la riunione del 15 giugno merita grande attenzione”. Le speculazioni comunque hanno già delle cifre precise: “Il mercato dei future prezza ad oggi un rialzo dei tassi a giugno con una probabilità di circa il 28% e del 68% a luglio”, afferma Simone Pecoretti, fixed income fund manager in Fideuram AM. “In passato la Fed difficilmente ha alzato i tassi a meno che il mercato già non scontasse tale evento con una probabilità elevata. Il mercato obbligazionario non sembra scontare interamente tale probabilità e si potrebbe pertanto assistere ad un’ulteriore correzione al rialzo dei rendimenti”. C’è chi però, come ad esempio Emilio Franco, vice direttore generale e responsabile investimenti di UBI Pramerica SGR, è convinto che “un rialzo dei tassi appare più probabile a settembre che fra giugno e luglio”, anche se in ogni caso “sarebbe un segnale di fiducia circa la solidità del ciclo e la prova che i rischi di un restringimento delle condizioni finanziarie a livello globale sono più contenuti”.

Una mossa dovuta

La mossa della Fed - che avvenga a giugno o a settembre - secondo gli esperti, sembra infatti comunque piuttosto comprensibile. “Sarebbe un buon segnale di fiducia rispetto alla possibilità dell’economia globale di uscire dal contesto di crescita troppo fragile in cui si trova da alcuni anni”, afferma Andrea Conti, che poi aggiunge come però “i mercati rimangono in qualche modo scettici sul fatto che questo sia possibile e chiedono a Yellen e colleghi di continuare ad agire da banca centrale per l’economia globale tenendo i tassi bassi per il maggior tempo possibile”. D’altronde, come ricorda Alessandro Rosina, “l ’inizio del processo di normalizzazione della politica monetaria da parte della Fed a dicembre 2015 ha certamente avuto effetti negativi sui mercati finanziari, ma oggi, a differenza di qualche mese fa, le condizioni sono diverse ed in qualche modo migliori”.

“Il prezzo del petrolio ha recuperato terreno riportandosi a ridosso dei 50 dollari (+80% dai minimi di gennaio/febbraio 2016) facendo recedere la probabilità di uno scenario deflattivo globale, i dati economici hanno mostrato una certa stabilizzazione sia in Europa che negli Stati Uniti, gli investitori hanno ridotto la rischiosità dei portafoglio aumentando la componente cash, il dollaro che sembrava destinato a rafforzarsi ulteriormente si è posizionato su livelli leggermente più bassi rispetto a quelli della fine del 2015”, spiega il portfolio manager di Aletti Gestielle.

Le conseguenze della Fed

La parola magica è rialzo graduale e contestualizzato. “In assenza di shock (Brexit) un ulteriore rialzo, accompagnato da dichiarazioni ancora una volta tranquillizzanti circa la gradualità di quelli futuri, se attuato in un contesto di dati economici ancora in recupero, di un prezzo del petrolio tra 40 e 50 dollari e un dollaro non eccessivamente forte non potrà avere conseguenze negative particolarmente ampie sui mercati finanziari”, precisa Rosina. Ma questo non significa che i rischi siano di là dal venire. Per Conti, responsabile macro research di Eurizon Capital non tutto dipende dall’America, ma “da quanto succederà nel resto del mondo. L’economia Usa è sufficientemente solida per sopportare un processo di rialzo dei tassi, di modesta entità e a passo graduale. Il problema, l’abbiamo visto in agosto e poi di nuovo in gennaio, sono i meccanismi che il rialzo dei tassi Fed innesca fuori dagli Usa. Da questo punto di vista osservati speciali sono l’economia, ma ancora di più i mercati finanziari della Cina. Quindi per capire cosa potrà fare la Fed bisogna guardare la valuta cinese”. Il rischio insomma è di ricadere nel circolo vizioso di sempre, che va dal dollaro ai mercati emergenti.

Anche per Simone Pecoretti, infatti, “un apprezzamento significativo del dollaro potrebbe avere effetti rilevanti sui mercati finanziari attraverso un indebolimento dei mercati emergenti, commodity, ed in particolare delle quotazioni della valuta cinese. Movimenti repentini su tali variabili finanziarie potrebbero avere effetti negativi non trascurabili sulle principali borse azionarie, come già abbiamo avuto modo di osservare ad inizio anno, di fatto annullando alcune delle precondizioni necessarie affinché la Fed possa proseguire nella fase di normalizzazione della politica monetaria”.

Dalla Yellen a Trump...

Mentre la Yellen fa i suoi annunci, frattanto la corsa alla Casa Bianca si fa sempre più vicina. Ma che tipo di ripercussioni potrebbero esserci sugli investimenti? Alessandro Rosina, che gestice nello specifico il fondo Gestielle Obiettivo America, si sofferma proprio sulle presidenziali, dove sembra difficile prevedere cosa vorrà fare o potrà fare il neoeletto. Per ora, “la discesa in campo di Trump e l’intensa battaglia per la conquista della candidatura da parte della Clinton hanno avuto un impatto positivo sull’economia domestica, soprattutto sull’industria dei media americani che sta beneficiando dei miliardi di dollari spesi dai candidati repubblicani e democratici per la campagna elettorale”, spiega.

“La retorica, la dialettica e le dichiarazioni propagandiste di Trump possono causare nervosismo negli investitori nel breve periodo, ma in realtà il candidato repubblicano essendo un uomo d’affari proverebbe senz’altro ad intraprendere una politica fiscale più espansiva rispetto a quella dell’amministrazione Obama, che potrebbe includere una riforma del codice fiscale societario e una legge sul rimpatrio dei capitali delle multinazionali americane a condizioni favorevoli, ma anche misure di allentamento dei vincoli regolamentari introdotti nel recente passato sul sistema bancario. Tutte misure favorevoli agli investimenti reali e finanziari, ma che comporterebbero un peggioramento delle finanze pubbliche”.