Greenwashing: cos’è e come combatterlo

Greenwashing
Carlos Lindner (Unsplash)

Non si tratta di un termine nuovo, ma negli ultimi anni è salito alla ribalta per via dell’importanza crescente che viene attribuita dall’intera società alle questioni di sostenibilità. Parliamo del greenwashing, o “lavaggio verde” in italiano. Questa espressione, apparsa per la prima volta su una rivista britannica negli anni Ottanta, fu coniata per analogia con il lavaggio del cervello (brainwashing) e da allora si è diffusa sempre più, sia in inglese che in altre lingue. Si usa per descrivere quella pratica di marketing o comunicazione con cui imprese e organizzazioni rilasciano dichiarazioni false o fuorvianti riguardo al loro impatto ambientale o ai loro impegni di sostenibilità.

In base a uno studio effettuato dall’ESMA nel 2020 e 2021 e pubblicato nel 2023, il 70% dei problemi legati a comunicazioni ingannevoli da parte delle società incluse nell’indice STOXX Europe 600 aveva a che fare con il greenwashing. Ovviamente l’intenzione, consapevole o meno, è quella di proiettare un’immagine di responsabilità nei confronti dell’ambiente senza però attuare comportamenti realmente sostenibili.

Le cause

Sono diversi i motivi alla base di questa condotta. Secondo gli esperti di abrdn, la diffusione del greenwashing può dipendere dal fatto che la sostenibilità è ormai diventata un business e le aziende sono soggette a pressioni crescenti, dato che la loro comunicazione in materia ambientale si rivolge a un pubblico sempre più esigente. Sotto il peso di questi fattori, alcune imprese finiscono per attuare pratiche ingannevoli per attrarre consumatori o investitori, che oggi sono più sensibili alle questioni di ecocompatibilità e alla reputazione dei brand. Alcune società fanno ricorso ad affermazioni fuorvianti in materia di sostenibilità per giustificare i prezzi più alti dei loro prodotti rispetto a quelli della concorrenza.

Un’altra causa può essere la mancanza di una regolamentazione efficace, chiara e rigorosa dell’informativa sugli impatti ambientali e sulla sostenibilità, che permette alle imprese di operare ai margini dei principi etici senza subire conseguenze di rilievo e apre la strada al greenwashing. La disinformazione contribuisce a sua volta alla diffusione di questa condotta. Alcune aziende possono fare pubblicità ingannevole senza esserne consapevoli, a causa di una comprensione insufficiente dei concetti di sostenibilità o della mancanza di definizioni chiare e standardizzate di cosa di fatto costituisca un comportamento responsabile sul piano ambientale.

Dal punto di vista degli asset manager, che avvertono la pressione di dover attrarre volumi di raccolta sempre maggiori, alcuni gestori possono cadere nella tentazione di promuovere prodotti finanziari come sostenibili anche se la sostenibilità non rientra tra i loro obiettivi. D’altro canto, la complessità dei parametri ESG può contribuire a rendere poco chiara l’effettiva posizione di una determinata società su questo fronte, portando i gestori a prendere decisioni di investimento non del tutto informate o allineate agli obiettivi di sostenibilità degli investitori.

Come si riconosce?

Guardando all’industria del risparmio gestito, gli investitori in fondi devono prestare particolare attenzione a una serie di indizi. Innanzitutto, è essenziale esaminare in modo approfondito il fondo in questione e verificare se il suo comportamento è in linea con la filosofia descritta. Se un prodotto si definisce come fondo sostenibile o che promuove caratteristiche ESG o sostenibili, deve essere indicato esplicitamente nell’informativa del fondo e nella documentazione pre-contrattuale. È quindi importante analizzare le modalità con cui vengono integrati i criteri ESG, il processo di selezione degli strumenti e gli obiettivi e impegni stabiliti in questo ambito, ad esempio in materia di transizione energetica o decarbonizzazione. Tra gli aspetti da considerare ci sono anche l’impegno con le società, i fattori di esclusione, l’allineamento agli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’ONU (se previsto dal fondo) o il tipo di iniziative, programmi o certificazioni in corso.

Per quanto riguarda gli indicatori specifici, gli investitori si basano in primis sulla classificazione SFDR. Si tratta senz’altro di un elemento necessario, ma non può essere l’unico criterio utilizzato per selezionare gli investimenti sostenibili. Nel settembre 2023 la Commissione europea ha avviato un processo di consultazione sul regolamento SFDR e una delle preoccupazioni emerse è una certa banalizzazione nell’uso degli articoli 8 e 9 come etichette per i prodotti sostenibili. Questa tendenza può accrescere il rischio di greenwashing. Altri fattori da monitorare per la loro importanza sono la gestione dei rifiuti, l’efficienza energetica, le emissioni di carbonio, l’investimento in combustibili fossili e il tipo di coinvolgimento per prodotto, oltre a verificare che la descrizione del fondo corrisponda ai dati effettivamente riportati.

Infine, gli investitori che vogliono assumere decisioni informate possono anche avvalersi di una consulenza professionale specializzata in investimenti sostenibili.

Come combatterlo?

Diverse entità hanno preso misure per contrastare il greenwashing, dalle organizzazioni non governative di consumatori ed ecologisti alle autorità di regolamentazione dei mercati finanziari, come l’ESMA, fino alla Commissione europea. Evidentemente non tutte hanno lo stesso potere di intervento e, nel caso delle ONG, il loro operato si limita essenzialmente a rilevare, analizzare e denunciare queste pratiche.

Da parte sua, l’ESMA svolge un ruolo decisivo nella regolamentazione e vigilanza dei prodotti di investimento per garantire che vengano commercializzati in modo trasparente e quindi che la relativa informativa sulla sostenibilità sia veritiera. Nella sua Sustainable Finance Roadmap 2022-2024 ha indicato la lotta al greenwashing come una delle sue massime priorità, definendolo “un problema complesso e sfaccettato che assume molteplici forme, ha diverse cause e ha il potenziale di esercitare un impatto negativo sugli investitori interessati a effettuare investimenti sostenibili”. Pertanto, nelle linee guida pubblicate di recente l’ESMA si è impegnata anche a regolamentare la denominazione dei veicoli che si proclamano sostenibili.

La Commissione europea, l’organo responsabile di formulare politiche e leggi, ha implementato varie misure volte a contrastare questo problema. Una delle ultime, annunciata nel 2024, consiste nell’“imporre sanzioni come l’esclusione dagli appalti pubblici, la confisca dei ricavi e una multa del 4% del fatturato annuale” alle società che praticano il greenwashing. In particolare, la Commissione ha voluto proibire l’utilizzo indebito delle etichette di sostenibilità, che possono essere usate soltanto “se attribuite da sistemi di certificazione approvati o istituiti dalle autorità pubbliche”.

Dal punto di vista dei gestori, è importante non solo monitorare le varie iniziative e misure varate dalle autorità, ma anche sorvegliare le imprese in cui investono assumendo un impegno attivo, ad esempio attraverso il voto alle assemblee degli azionisti o il dialogo diretto. Anche l’adesione a determinati programmi, come i Principi per l’investimento responsabile (PRI) dell’ONU o l’allineamento degli investimenti agli SDGs, può aiutare a contrastare il greenwashing. Infatti, i fund manager che partecipano a queste iniziative dimostrano un chiaro impegno nei confronti degli investimenti responsabili e sostenibili e della trasparenza nell’integrazione dei criteri ESG, il che può aiutare a ridurre la percentuale di strategie di sostenibilità ingannevoli nei loro portafogli.