Il rendimento reale, perché la corsa dell’inflazione è un problema per gli investitori

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Mathieu Stern, Unsplash

Le aspettative per il dato sull’inflazione di marzo erano senz’altro elevate, ma colpisce comunque il fatto che, secondo le stime definitive dell’Istat, la crescita dei prezzi in Italia abbia toccato il 6,5% su base annua, livello che supera il 5% anno su anno per il secondo mese consecutivo e che non si registrava dal maggio 1991. La causa è da ricercarsi nella crisi energetica in corso che provoca forti aumenti dei prezzi dell’elettricità (che ogni giorno segnano nuovi record) e dei carburanti, aggravati ulteriormente dalla guerra Russia-Ucraina, nonché dei prodotti agricoli. Inoltre questi rincari, che non appaiono più così transitori come si credeva in un primo momento, danneggiano non solo i consumi, perché non sono accompagnati da incrementi salariali di pari entità, ma anche i risparmi.

Alla fine, qualsiasi investitore cerca sempre di ottenere un rendimento del capitale che copra almeno l’aumento del costo della vita: in altre parole, un rendimento reale (rendimento dello strumento al netto dell’inflazione) positivo. E non è certo facile in un contesto di inflazione elevata e tassi di interesse contenuti.

Cos’è il rendimento reale?

Rispolveriamo questo concetto e lo analizziamo dal punto di vista delle obbligazioni, che sono spesso l’asset class preferita dagli investitori più cauti. In un quadro di corsa dell’inflazione, i detentori di titoli di debito esigono di essere ricompensati da tassi di rendimento più alti, che accrescono l’attrattiva degli investimenti in obbligazioni. Non dimentichiamo che i prezzi dei bond si muovono in direzione opposta ai rendimenti; pertanto, a un aumento dell’inflazione corrisponde in genere un calo delle quotazioni obbligazionarie. Ecco perché in questo momento è importante distinguere il rendimento nominale da quello reale per valutare correttamente l’investimento in un prodotto obbligazionario.

Il rendimento nominale è una prima approssimazione del rendimento che gli investitori percepiranno a fronte dell’investimento effettuato e si basa sul tasso di interesse nominale, ovvero la percentuale che si aggiunge al capitale prestato a titolo di remunerazione durante un periodo determinato. Invece, il rendimento reale dipende anche da una serie di fattori esterni: uno dei più importanti è l’inflazione, oltre alle tasse e al costo dell’investimento. Per rendimento reale si intende quindi il rendimento generato dall’investimento rettificato per le variazioni del quadro economico.

Negli ultimi anni il reddito fisso ha registrato ottime performance, grazie alla combinazione di tassi di interesse quasi a zero e inflazione inesistente. Ma a quanto pare questo scenario sta cambiando: anche se le banche centrali hanno avviato un processo di normalizzazione monetaria e perfino di rialzo dei tassi di interesse, questi si attestano ancora su livelli molto lontani dagli elevati tassi di inflazione registrati non solo in Italia, ma in tutto il mondo. E la differenza tra il costo della vita e i tassi di interesse dimostra chiaramente che per generare un rendimento reale positivo è necessario assumere un livello di rischio maggiore.

Quando la prudenza può essere troppa

Gli attuali rendimenti reali negativi danneggiano in modo particolare chi investe in depositi. Come emerge da una ricerca della Fabi, i depositi e i conti correnti continuano a segnare nuovi record in Italia: superano ormai 1.600 miliardi di euro e intercettano più del 30% della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane. 

Uno studio dell’EFAMA, di cui abbiamo parlato in questo articolo, analizza in termini numerici il costo opportunità e la perdita di potere d’acquisto dei risparmiatori che scelgono di investire in depositi. Ad esempio, negli ultimi dieci anni un deposito di 10 mila euro avrebbe perso mille euro, e questo in un contesto di inflazione molto bassa.

Per di più, anche se i fondi di investimento hanno guadagnato importanza nell’ambito del risparmio finanziario fino a rappresentare il 15% del totale, i patrimoni delle famiglie sono ancora investiti in larga misura in prodotti a basso rischio: in primis le obbligazioni, ossia l’asset class che, in un contesto di tassi di interesse ancora bassi, fatica più delle altre a battere gli elevati tassi di inflazione.