Il rallentamento della Cina visto dagli asset manager

Chuttersnap, Unsplash
Chuttersnap, Unsplash

I dati diffusi dall’Istituto nazionale di statistica cinese hanno certificato il rallentamento dell’economia del gigante asiatico. Il secondo trimestre 2019 si è chiuso con un +6,2% anno su anno. “Si tratta del valore più basso dal 1990”, sottolinea Charlie Sunnucks, gestore del team Global Emerging Markets di Jupiter Asset Management, che fa però immediatamente notare come “l’azionario cinese abbia comunque mostrato un rialzo, sostenuto dai dati di giugno che suggeriscono un'accelerazione della produzione industriale fino alla fine del periodo”. La crescita inoltre rimane per ora nel target stabilito da Pechino per cui la soglia minima è rappresentata dal +6%. Elementi interni e esterni, in primis lo scontro con gli Stati Uniti sul commercio globale, pesano sulle prospettive degli investitori. Quali sono dunque i fattori da monitorare con maggiore attenzione?

Apertura al mondo

“Le preoccupazioni degli investitori per quanto riguarda la Cina sono diffuse e spaziano dal rallentamento dell’economia del Paese alle guerre commerciali, fino alle tensioni politiche interne”, sintetizza Julie Dickson, investment director di Capital Group. “Per gli investitori con un’ottica di lungo periodo, tuttavia, è un altro l’aspetto più interessante: il mercato azionario interno cinese si sta aprendo al mondo”, chiarisce. “Un sogno che si avvera per gli stock picker”, secondo Dickson, lanciati verso la ricerca delle nuove Alibaba, Baidu o Tencent.

Capital Group, Cina

“Nonostante le notizie talvolta scoraggianti, il mercato azionario cinese continuerà ad essere trainato dall’afflusso di capitali esteri e partecipare a questo mercato in rapida crescita sarà di fondamentale importanza per gli investitori alla ricerca di un’ampia diversificazione e di una crescita del capitale a lungo termine”, è convinta investment director di Capital Group.

Sempre più selezione

Una stabilizzazione della crescita a livelli più moderati rispetto agli ultimi dieci anni è però certamente in atto e, avverte Sunnucks sul punto, “per gli investitori diventerà sempre più importante distinguere tra le società che hanno semplicemente goduto di vantaggi ciclici in un'economia in espansione e quelle che offrono reali opportunità strutturali in un mercato che sta considerevolmente cambiando”. Un cambiamento portato, spiega il gestore del team Global Emerging Markets di Jupiter Asset Management, da un lato dall’attività dei policy maker cinesi nel processo di transizione dell’economia e dall’altro dalla prospettiva commerciale a causa delle tensioni con gli Stati Uniti.

Un problema non solo cinese

L’aumento delle misure protezionistiche a livello globale è una questione che trascende le due più grandi economie mondiali. “A livello di impatto macroeconomico”, spiega Craig Botham, senior Emerging Markets economist di Schroders, “il grafico mostra l’effetto cumulativo sul PIL degli ultimi aumenti dei dazi, secondo il modello macro di Oxford Economics. Sia gli USA che la Cina ne trarranno svantaggio, con un Pil in calo dello 0,3% per gli USA e dello 0,8% per la Cina entro il 2020, rispetto a uno scenario in assenza di dazi. Tali effetti sono pari circa a due volte quello derivante dai dazi esistenti. L’impatto è maggiore sulla Cina, a causa della sua maggiore dipendenza dagli scambi commerciali, ma anche il Giappone e l’Europa vedranno un calo del PIL compreso tra lo 0,1% e lo 0,2%”.

Schroders, Cina

Un quadro di rallentamento generalizzato da evitare per Donald Trump, che, secondo il senior Emerging Markets economist di Schroders, non vorrà correre il rischio di ripercussioni sull’economia statunitense proprio nel momento in cui si avvicinano le elezioni presidenziali del 2020. La situazione attuale, concordano però Botham e Sunnucks, che sta influendo sulla fiducia delle imprese cinesi e sugli investimenti, rappresentando dunque un fattore da monitare con costanza nel breve e medio periodo.