Lasciare indebolire lo yuan. Quali conseguenze

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foto flickr: IvanWalsh.com, creative commons

La preoccupazione principale rimane quella della scarsa crescita globale e della prepotente presenza di spinte deflazionistiche. Europa a parte, il resto del mondo sembra non soddisfare le aspettative di crescita, peraltro abbastanza prudenti. Sono molte le economie emergenti in palese difficoltà ma è soprattutto la Cina a venir vista come l’epicentro del rallentamento. La stabilizzazione della borsa cinese da parte delle autorità, riuscita solo in parte, fornisce una chiave di lettura limitata mentre il prezzo delle commodity non accenna a trovare supporto.

Secondo Alessandro Balsotti, senior portfolio manager di JCI FX Macro Fund, comparto di JCI Capital, "questo è un sintomo più sincero delle conseguenze non facilmente controllabili che provoca la lenta ma inesorabile transizione di quello che è stato il modello prevalente per la seconda economia mondiale. Da trasformatori, esportatori e investitori infrastrutturali a consumatori. Un cambiamento auspicato e consigliato da tutti. Il fatto che sia ampiamente desiderabile non garantisce però che possa avvenire facilmente e senza effetti collaterali. La situazione nel mondo delle commodity viene da molti paragonata a quella di inizio anno. È in realtà peggiore. Il petrolio non è ancora sceso sotto i minimi di marzo, se non consideriamo il suo prezzo più seguito, quello spot, ma il prezzo a 12-18 mesi (a cui molte banche centrali fanno riferimento nei loro modelli) è già tornato ai minimi o li ha superati, come nel caso del Brent per consegna dicembre 2016. Inoltre ora la debolezza è ben visibile anche al di fuori del comparto energetico. Tutta l’asset-class è sotto pressione: dai metalli industriali ai preziosi, alle commodity agricole".

La risposta dei policy-maker cinesi alla debolezza nei primi mesi dell’anno era stata relativamente grintosa. Qual è stato l’effetto?

Si, erano partiti con taglio dei tassi, riduzioni della riserva obbligatoria e varie iniezioni di liquidità più o meno mirate. L’effetto però, in termini di risultato effettivo sull’economia reale, è stato molto ridotto e il rimbalzo ciclico breve e scarso. Si potrebbe quasi azzardare l’ipotesi che (come spesso accaduto nel mondo post crisi nelle economie sviluppate) l’accomodamento monetario non sia filtrato all’economia reale ma sia stato convogliato con forza nel lato finanziario dell’economia (borsa, nel caso cinese). Il mercato sembra iniziare a dubitare nella capacità delle autorità cinesi di reagire in maniera efficace a una debolezza indesiderata del ciclo economico. È questa forse la parte più delicata della situazione dal momento che uno degli assiomi fondamentali del mercato cinese è sempre stato quello di concentrarsi sul volere dei policy-makers. La capacità di implementazione della volontà stessa era da considerarsi un dettaglio.

Potrebbe continuare il rallentamento (dell’economia cinese e di altri paesi emergenti collegati al suo ciclo) nonostante gli sforzi di accomodamento monetario e fiscale?

Non è da escludere l’ipotesi che si faccia ricorso a quello che da qualche tempo è stato considerato tabù: lasciare indebolire lo yuan. Negli ultimi 12 mesi, rimanendo invariato rispetto al dollaro, la valuta cinese si è rivelata una delle monete più forti al mondo. Contro due valute degli altri paesi BRICS (RUB e BRL) il rafforzamento è stato superiore al 50%. La stabilità è stata fortemente voluta per motivi di immagine, in un momento importante per il ‘curriculum’ del mercato finanziario cinese. L’inclusione dello yuan nel basket SDR dell’IMF e del suo mercato azionario negli indici globali MSCI potrebbero essere raggiunti nei prossimi mesi. Non crediamo però siano obiettivi che verranno perseguiti ad ogni costo. E i costi stanno salendo significativamente.

Quali sono gli effetti sui mercati se lo yuan venisse lasciato andare in maniera significativa (10%-15%)? 

I più immediati che vediamo sono due. Un’ulteriore pressione di indebolimento per molte valute emergenti, specialmente asiatiche. Il che potrebbe portare a effetti collaterali non facilmente gestibili visto l’alto indebitamento in dollari presente in molti paesi emergenti (a differenza della crisi asiatica del ‘97 più nel settore privato che in quello pubblico). Inoltre la forza del dollaro contro un partner commerciale principale per gli Stati Uniti (la Cina) non potrebbe che generare una reazione da parte della Fed, allontanando e/o ammorbidendo il ciclo di rialzi, togliendo supporto allo stesso dollaro (contro le valute principali) e dandolo al mercato obbligazionario.