Lind (Capital Group): "Il prezzo da pagare per riportare l'inflazione al 2% è troppo alto"

Robert Lind, foto concessa (Capital Group)

L'aumento dei prezzi sarà probabilmente più persistente di quanto inizialmente previsto dalle banche centrali. Questo il punto di vista di un economista esperto come Robert Lind. Il sentiment degli investitori sull'inflazione è mutato con lo scoppio della guerra in Ucraina e anche le previsioni macroeconomiche sono cambiate. Un anno fa, i discorsi sulla recessione sembravano pessimistici. Oggi rappresentano il consenso.  L’economista di Capital Group non usa mezzi termini: "Sembra sempre più inevitabile che gli Stati Uniti e l'Europa si stiano avviando verso una recessione", dice. Sarà una contrazione causata dall'inasprimento della politica monetaria da parte delle banche centrali. "Ma non dobbiamo leggerlo come un errore politico. È semplicemente il prezzo da pagare per combattere l'inflazione", insiste.

Un ambiente molto diverso

Lind non interpreta il nervosismo degli investitori come irrazionale. "Siamo di fronte a uno shock energetico della portata della crisi petrolifera del 1974", ricorda. Sebbene i prezzi del gas si siano calmati nelle ultime settimane, sono ancora a livelli storicamente elevati alla vigilia dell'inverno. "Ecco perché gli investitori sono così nervosi. È un ambiente molto diverso. E il cambiamento più grande è in Europa", spiega.

Le regole del gioco sono cambiate. Siamo passati da una Banca Centrale Europea che lottava per portare l'inflazione all'obiettivo del 2% ad una che cerca disperatamente di portarla al di sotto di tale livello. A suo avviso, sembra che le banche centrali siano determinate a concentrarsi su questo campo di battaglia. In altre parole, tutto questo potrebbe innescare una contrazione piuttosto significativa. Il dibattito attuale si sofferma su un interrogativo chiave: quanto di questo ambiente è ciclico e quanto strutturale? Da un lato, Lind vede l'inflazione attenuarsi naturalmente grazie all'effetto base, ma dall'altro sottolinea anche la mancanza di investimenti in infrastrutture nei Paesi sviluppati.

Il rischio di una spirale inflazionistica

Gli addetti ai lavori si domandano quanto profondo e quanto lungo sarà questo periodo di alta inflazione. E per cercare di comprenderlo, fanno riferimento agli anni '70 e alla lezione che si può trarre da questo periodo.

 "Quando l'inflazione è incorporata nell'energia e nei generi alimentari, diventa un problema più importante per i lavoratori. Ed è questo che preoccupa le banche centrali. Perché il lavoratore non si limita a chiedere un aumento di stipendio per recuperare il potere d'acquisto perso quest'anno, ma conta anche sull'inflazione dell'anno prossimo", spiega. Questo è ciò che potrebbe portare a una spirale inflazionistica e alla perdita di controllo della situazione da parte delle banche centrali, rendendo l'inflazione difficile da combattere.

Secondo Lind, si sta sottovalutando l'impatto di un rapporto debito/PIL più elevato. Quand'è stata l'ultima volta che la politica fiscale ha mostrato di poter essere troppo poco rigorosa? Proprio negli anni '70. E cosa sta accadendo ora? Come ha dimostrato il Regno Unito qualche settimana fa, i disavanzi pubblici possono trasformarsi in problemi più gravi. Non solo per quello che pensa il mercato; i lavoratori possono interpretarlo come un'anticipazione del fatto che i governi vorranno un'inflazione più alta per ridurre il loro debito.

Un nuovo regime macroeconomico

Il problema che l'economista vede è che le banche centrali dovranno accettare un certo livello di sostegno fiscale da parte dei governi. Il risultato è che, mentre l'inflazione del 10-20% non diventerà la normalità, il 3-5% sarà un livello probabile. "Il prezzo da pagare per riportare l'inflazione al 2% è troppo alto", afferma. Per questo motivo, Lind non crede che le banche centrali saranno in grado di portare i tassi di interesse al livello necessario per riportare l'inflazione ai livelli del passato. L'economista prevede quindi che l’entrata in vigore di un nuovo regime macro. "E questo ha profonde conseguenze sul tipo di titoli che conviene tenere in portafoglio. Potrebbe essere necessario ripensare il tasso di sconto applicato alle valutazioni", afferma.