Brexit: 5 scenari possibili per Regno Unito e UE

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Commento a cura di Alessandro Allegri, AD di Ambrosetti AM SIM.

La complessa storia della Brexit comincia il 23 giugno 2016, quando viene indetto un Referendum per l’uscita della Gran Bretagna dalla UE: il SI vince con il 51,9% dei voti. Il 3 luglio 2016 Theresa May subentra come premier inglese al posto di David Cameron che aveva dato le dimissioni il 24 giugno 2016. Il 16 marzo 2017 entra in vigore lo European Union Notification of Withdrawal Bill, Atto del Parlamento Britannico che dà al consiglio UE il consenso formale per l’avvio dei negoziati. In seguito, durante le elezioni nazionali del Regno Unito, la May esce indebolita con una maggioranza risicata rispetto all’opposizione laburista. Il 19 giugno 2017 iniziano i negoziati e il 6 luglio 2017 il governo britannico raggiunge un accordo sui principi delle relazioni con la UE. Successivamente, l’8 e il 9 luglio 2017 si dimettono il ministro della Brexit Davis Davis e il suo collega degli Esteri Boris Johnson. Il 13 novembre 2018 Theresa May raggiunge un accordo provvisorio con l’Europa, approvato dai ministri britannici e il 25 novembre arriva il via libera del Consiglio europeo. Infine, il 15 gennaio, la Camera dei Comuni inglese boccia l’accordo della May con l’UE per 432 a 202: si tratta di una sconfitta pesantissima.

Alcuni quotidiani britannici non lasciano scampo alla premier inglese: il Daily Telegraph parla di una “complete humiliation” - Una totale umiliazione – così come il Metro descrive questo risultato come la “Worst defeat ever”, ovvero “La peggiore sconfitta di sempre”. 

E adesso? Theresa May ha comunque reagito e ha fatto queste quattro promesse: fare una dichiarazione non oltre il 21 gennaio, proteggere l’integrità del Regno Unito, ridare alla Gran Bretagna il controllo di frontiere, leggi e soldi e permettere alla Gran Bretagna di avere una politica commerciale indipendente.

Intanto si presentano per Regno Unito e Ue 5 scenari possibili:

  1. Lo scioglimento del Parlamento e elezioni anticipate, obiettivo del leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn.
  2. Il cosiddetto “no deal”: se non passa la sfiducia a May e non si trova un’alternativa, l’iter prevede un’uscita senza accordo la sera del 29 marzo 2019 con il rischio di un terremoto su economia, dogane e confini. In questo caso ci sarebbero conseguenze devastanti in particolare in campo commerciale: in un mondo globalizzato, dove il mercato libero non rende più ipotizzabili forme di autarchia economica, nessun Paese è autosufficiente in tutti i settori della produzione. Se quindi la Gran Bretagna dipende dalle importazioni dall’Ue per soddisfare diversi fabbisogni, dal cibo ai farmaci, fino alla componentistica, cosa succederà una volta eliminati gli accordi commerciali? Questi prodotti verranno presto a mancare.
    C’è poi il tema del mondo finanziario britannico che sarà senza dubbio uno dei settori più colpiti. Innanzitutto, perderà il suo ruolo egemone nel panorama europeo, in favore di storiche sedi finanziarie europee, come Amsterdam o Lussemburgo, e altre emergenti, come Bruxelles. Nella capitale belga, ad esempio, si sono già trasferite importanti compagnie che avevano sede a Londra. Bruxelles, oltre a essere una sede che offre un regime fiscale abbastanza favorevole, vanta anche la vicinanza con le istituzioni europee, il che ne fa un importante centro di lobbying.
    Infine, un’uscita senza accordo oltre ad avere ripercussioni sul turismo da e per la Gran Bretagna, inciderà anche sulle vite delle migliaia di espatriati europei nel Regno o, viceversa, per coloro che dalla Gran Bretagna sono andati a vivere nell’Unione.
  3. Secondo voto sull’accordo: il governo dovrebbe preparare un nuovo piano e tornare ai Comuni entro tre giorni lavorativi.
  4. Rinegoziazione con l’UE: Londra potrebbe chiedere all’Europa l’estensione del termine negoziale del 29 marzo 2019.
  5. Referendum bis: è la richiesta dei Remain sostenuta dalla maggioranza dei laburisti e non solo. A sollecitarla anche il movimento di piazza per “People’s Vote” ma serve l’ok del governo e il sostegno di una maggioranza bipartisan. May lo ha ripetutamente escluso, dicendo che minerebbe la fiducia nella democrazia tra i 17,4 milioni che hanno votato nel 2016 per andarsene.

A questo punto la Gran Bretagna si prepara ad affrontare l’ennesima sfida…