Cambia l'orizzonte temporale degli investitori istituzionali

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Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Commento a cura Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.

Quando si concentra l’attenzione sulle variazioni nel livello di occupazione in un determinato Paese si tende genericamente a considerarne i risvolti sulla popolazione, positivi se cresce, negativi se decresce, traendo conclusioni talvolta limitate alla sola sfera lavorativa. Se si considera però uno spettro più ampio di analisi, percentuali più o meno elevate di occupati, persone che dunque hanno facoltà di spesa e consumo, portano inevitabilmente a una superiore stabilità del sistema Paese nel suo complesso. Il mercato del lavoro, al pari della sfera previdenziale, non a caso è sempre stato al centro del dibattito politico e fulcro attrattivo di provvedimenti più o meno incisivi. È ben noto a tutti come un Paese senza lavoro è un Paese che cresce poco, che si impoverisce, che ha livelli di produttività inferiori e che, tendenzialmente, ha bisogno di impiegare maggiori risorse per la spesa assistenziale. 

Ebbene, i mutamenti e le dinamiche che avvengono nel mercato del lavoro hanno però un impatto non solo sulla produttività della nazione, sulla qualità di vita degli individui, ma anche sulla loro pensione futura. La tendenza degli ultimi anni ha mostrato infatti come l’ambito posto fisso oggi non possa più essere considerato tale. Il paradigma che ha guidato per decenni il nostro Paese (avere lo stesso impiego per l’intero arco di vita attiva) ha subito notevoli cambiamenti. Cambiamenti ascrivibili a molteplici fattori: la società che evolve e che richiede differenti figure professionali, la maggiore richiesta di flessibilità e duttilità degli impieghi, aziende e imprese che innovano e creano nuovi posti di lavoro ma rinunciano ad altri, le stesse crisi finanziarie che hanno portato alla chiusura di molte attività con conseguente licenziamento del personale impiegato. 

Insomma, le carriere oggi sono maggiormente discontinue, più o meno volontariamente, e i cambi di impiego avvengono con maggiore frequenza. Se si guardano infatti i dati Eurostat riferiti all’Italia, la percentuale di persone che restano nello stesso posto di lavoro per classi di permanenza ha subito alcune variazioni nel tempo: prendendo in esame una coorte molto ampia della popolazione (15-74 anni), per la classe tra i 24 e i 59 mesi di permanenza il dato si attesta al 13,6% nel 2018 (era il 15,5% nel 2009). Sulla classe oltre i 60 mesi, rispetto al 2009, si evidenzia una sostanziale stabilità ma, rispetto al picco del 2015 (71,9%), al 2018 è sceso al 68,7%. Nonostante le naturali differenze nel funzionamento dei sistemi pensionistici europei, guardando il seguente grafico, si evince come tale tendenza si riscontri in tutti i Paesi, eccezion fatta per la Germania. Ciò testimonia come il fenomeno non riguardi esclusivamente l’Italia, ma che la portata dei cambiamenti del mondo del lavoro è ormai un fenomeno diffuso e con cui bisogna indubbiamente fare i conti.

Una tendenza dunque a variare posizione lavorativa presumibilmente nei primi anni di carriera, ma che espone il lavoratore a una frammentazione nella fase contributiva. Questo impatta soprattutto sulle giovani generazioni, investite inoltre da una precarietà di impiego che deriva dall’uso di contratti a tempo determinato maggiore rispetto a quanto avveniva in passato. 

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Fonte: elaborazioni Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati Eurostat

Cosa cambia per gli investitori previdenziali?

Ciò porta a prendere in considerazione le ripercussioni che tali cambiamenti, ormai sempre più in consolidamento, hanno anche sugli enti erogatori di prestazioni pensionistiche. Gli investitori previdenziali, che siano di primo, di secondo o terzo pilastro, hanno inevitabilmente un orizzonte temporale di lungo/lunghissimo periodo proprio perché il loro scopo è quello di erogare le pensioni. I mutamenti nel mondo del lavoro hanno però un maggiore impatto sui fondi pensione, in particolare quelli contrattuali dove, a fronte del cambio di occupazione del proprio iscritto (nel caso in cui il cambio comporti anche il cambio di settore), si dovrà liquidare la posizione previdenziale accumulata per trasferirla al fondo previsto dal nuovo contratto di lavoro: vale a dire, un’uscita di risorse che deve essere necessariamente tenuta in considerazione a livello di sostenibilità patrimoniale. Ma non solo. 

Gli aderenti, in determinati periodi della propria (spesso sono legati alla propria situazione lavorativa), possono richiedere il riscatto di una parte del montante contributivo accumulato: periodi di inoccupazione, acquisto prima casa per sé o per i propri figli, spese sanitarie improvvise. Stessa cosa, anche se con modalità differenti, accade per le Casse di previdenza dei liberi professionisti. Queste, seppur erogatori di prestazioni pensionistiche di primo pilastro e dunque non integrative, si sono sempre più evolute sotto il profilo di prestazioni di welfare, non limitandosi più alla sola erogazione di risorse alla maturazione dei requisiti pensionistici dell’iscritto, ma intervenendo anche sul più breve periodo, ad esempio a sostegno dell’attività professionale, della genitorialità o, più in generale, con altre forme di intervento che accompagnano e affiancano il professionista nel corso di tutta la propria carriera lavorativa. 

Tutto questo costringe gli enti previdenziali a mantenere un occhio accorto sulla gestione finanziaria delle proprie risorse. Le Casse di Previdenza, ad esempio, hanno l’obbligo di mantenere una sostenibilità finanziaria prospettica su un arco temporale di 50 anni, ragione per la quale è per loro fondamentale riuscire a fare il matching tra l’investimento dei loro attivi e le passività implicite per il pagamento delle pensioni. Allo stesso modo, i fondi pensione, pur avendo un funzionamento diverso dalle Casse, presentano vincoli verso i propri iscritti che costringono gli stessi a mettere in campo soluzioni efficienti per bilanciare le esigenze di più breve periodo degli aderenti e preservare la redditività del patrimonio attraverso investimenti di lungo periodo.

Un mondo del lavoro dunque che muta rapidamente, che cambia pelle e a cui il lavoratore deve inevitabilmente sottostare. Parallelamente, la finanza mondiale ha conosciuto in questi anni uno scenario nuovo, dove ormai su oltre 17 trilioni di dollari di titoli obbligazionari l’investitore paga per prestare il proprio denaro. Gli investitori istituzionali sono da parte loro colpiti da entrambi gli scenari, chiamati così a fare i conti con due facce della stessa medaglia: da un lato, la necessità di conseguire ritorni finanziari più elevati li costringe a innovare le proprie gestioni, a investire in prodotti che, per caratteristiche, presentano una fase di immobilizzazione del capitale di lungo periodo; dall’altro, le crescenti esigenze di breve periodo degli iscritti porta fondi pensione e Casse di Previdenza a prevedere una maggiore frequenza di erogazione delle proprie risorse.

Diventa allora importante riflettere sulle possibilità da mettere a terra, perchè il mito del lungo periodo si accorcia sempre di più.