Contributo a cura di Marco Piersimoni, senior portfolio manager di Pictet Asset Management.
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Contributo a cura di Marco Piersimoni, senior portfolio manager di Pictet Asset Management.
Nonostante permangano dubbi sulla sua sostenibilità nel medio periodo, la ripresa economica è ormai un dato acquisito. In particolare, sul fronte della crescita le economie sviluppate sono sopra il potenziale; viceversa il mercato emergente rimane più indietro sotto il profilo dei ritmi di crescita.
A latere si intravede qualche lieve disallineamento: i dati macroeconomici negli ultimi due mesi, soprattutto in America, si sono mostrati un po’ deludenti. Inoltre, a destare preoccupazione è anche un altro elemento, ovvero il ruolo degli investimenti all’interno del ciclo di espansione. Infatti se gli investimenti non verranno affiancati dai consumi, i quali stanno deludendo molto in questa ultima fase, potranno al più giustificare l’innesco di un ciclo ma non una fase di crescita di lungo periodo. Quale che sia il caso, l’indicatore sulla probabilità di recessione nel prossimo anno è comunque prossimo allo zero.
Sul fronte politico globale sembra essere invece sfumato per il momento il rischio di una deriva protezionistica operata da Donald Trump, laddove pare sempre più chiaro che il presidente Usa abbia utilizzato questa minaccia soprattutto in chiave negoziale per ottenere un dollaro debole, perpetuando il patto di Shanghai tacitamente concordato ad inizio 2016.
L’inflazione
In questo ultimo periodo l’inflazione è rimbalzata dai minimi scongiurando, soprattutto nei Paesi core, il rischio deflazione. Attualmente siamo attestati su un livello stimato per il 2017 intorno al 2%, che tutte le Banche centrali ritengono fisiologico. Nei Paesi emergenti la pressione inflazionistica è invece più bassa, coerentemente con un output gap (negativo) più ampio. Il picco inflazionistico è dunque alle spalle e nei primi mesi del 2017 l’andamento mostra una normalizzazione.
L’esercizio di carotaggio sulle componenti dell’inflazione rende immediatamente chiaro l’impatto dell’andamento del petrolio. L’inflazione è, infatti, data da una componente importata e da una endogena: sulla prima, l’analisi rivela che siamo entrati in un mondo strutturalmente diverso in cui le nuove tecnologie di estrazione, in particolare dello shale oil Usa, fanno da fornitore marginale di petrolio quando si raggiunge la fascia alta di prezzo. In particolare, il prezzo break-even per l’estrazione dello shale è oggi intorno a 50-60 dollari al barile: questa è la soglia a cui la produzione è redditizia e viene quindi avviata. In altre parole, lo shale fa oggi da livellatore per fasce alte del prezzo del petrolio, che corrispondono ai livelli di break-even. Di conseguenza, difficilmente il prezzo supererà i 50-60 dollari al barile.
Il petrolio spiega l’andamento dell’inflazione headline. Tuttavia, se depuriamo l’inflazione da quella componente, la core inflation Usa come quella europea non registrano l’ottimismo di maniera sull’attività economica che ritroviamo nelle parole delle Banche centrali. Da un lato è vero che l’inflazione headline influenza quella core, ma non può esserne l’unica determinante.
Il nodo su questo tema è che ci sono delle dinamiche che non riusciamo più a spiegare con le metriche tradizionali. Ad esempio, negli Usa il tasso di disoccupazione è poco sopra il 4%, livello considerato di piena occupazione, e secondo la curva di Phillips si dovrebbero manifestare le pressioni salariali alla base della componente domestica dell’inflazione. Questo meccanismo oggi sembra essere fortemente inibito. La spiegazione potrebbe trovarsi nella qualità dell’occupazione che è sempre più modesta e precaria.
Tuttavia, la cosa più interessante è che di fronte a questo elemento macroeconomico di fatto ambiguo le Banche centrali hanno comunque mantenuto la loro precedente posizione. Questo ha fatto sì che si evidenziasse una contraddizione sempre più evidente tra sviluppo dei dati economici e sviluppo della retorica da parte delle Banche centrali.
Una nuova ondata di liquidità inattesa
La fine dell’accomodamento monetario era prevedibile dato che era diventata inefficace la politica monetaria operata da tutte le Banche centrali del mondo, la quale aveva creato una liquidità di ben oltre 10.000 miliardi di dollari. L’errore è stato, però, quello di immaginare che questo significasse che il picco di creazione di liquidità fosse alle spalle. Infatti, nel primo trimestre del 2017, 450 miliardi di depositi presso la Fed sono stati immessi dal Tesoro Usa nel sistema finanziario e nel contempo le Banche centrali dei Paesi asiatici sono tornate acquirenti netti di Treasury di fatto trovandosi a generare liquidità in dollari. Si tratta ovviamente di operazioni straordinarie che tuttavia generano un temporaneo allungamento della festa di liquidità, contraddicendo la retorica della Fed.
Il dubbio come driver della strategia di investimento
Come costruire il portafoglio in questo scenario? Il primo grande puzzle da risolvere è sulla volatilità, che può spiegarsi come la risposta del mercato alle iniezioni di liquidità. Nonostante le parole e il mood rialzista della Fed, con l’immissione inattesa dei 450 miliardi in Usa, non solo il premio a rischio è sceso in riferimento a condizioni finanziarie sempre più accomodanti ma anche la volatilità è stata travolta.
Attualmente siamo a livelli estremamente bassi: quella realizzata dall’azionario Usa è del 7%, tipica dei mercati obbligazionari i quali a loro volta viaggiano insieme ai mercati valutari su livelli di poco sopra lo zero. Al contrario, la volatilità degli utili è in ripresa: quella forward per i prossimi 12 mesi è all’11% in Usa e al 13% in Europa, con livelli ancora più alti per gli emergenti. Una spiegazione plausibile per questo andamento è che la volatilità sia diventata di fatto il miglior carry sul mercato: una delle strategie più appetibili del momento è infatti vendere la volatilità implicita e incassare la differenza tra questa e quella realizzata. Una strategia tipica di hedge funds e di chi fa arbitraggio di volatilità ma che ora si è insinuata anche in prodotti long only o multi asset. Per giustificare un regime di volatilità realizzata così basso come quello attuale, crediamo tuttavia che bisogni anche attingere ad elementi strutturali, ciclici, di mercato.
Infine, un breve commento sulle scelte settoriali. L’importanza della dinamica dei tassi di interesse è aumentata in modo significativo a partire dal 2012, a seguito quindi delle ondate di QE delle Banche centrali. Alcune dinamiche di medio termine sono intuitive (aumenta la relazione positiva tra finanziari e tassi, così come aumenta quella negativa tra difensivi e curve dei rendimenti). Più di recente, sorprende il comportamento del settore IT: titoli a bassa leva finanziaria, con politiche distributive molto limitate che subiscono il cambio di tono delle Banche centrali come fossero puri interest rate sensitive. Solo una delle molte anomalie da decifrare.