Decorrelare e diversificare i portafogli è sempre più importante e anche per questo motivo gli investimenti alternativi continuano a piacere e ad aumentare le proprie quote nei portafogli istituzionali. Contributo a cura di Gianmaria Fragassi del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.
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Contributo a cura di Gianmaria Fragassi del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.
Una delle difficoltà maggiori nello scrivere un articolo di questi tempi è sicuramente una corretta valutazione di situazione e circostanze attuali. Non è mai facile azzardare previsioni in tempi “normali”, figuriamoci in un periodo di incertezza (politica, economica, finanziaria, sociale e soprattutto pandemica) totale. La vera scommessa, se mai finirà questa strana fase, sarà cercare di capire che forma e che sapore avrà l’uscita dalla crisi sia in ambito finanziario che in ambito reale. La finanza, declinata in tutte le sue sfaccettature, può aiutare a favorire la ripresa, ma dovrà cogliere al volo l’opportunità di modificare il modo e i tempi dell’investimento che dovranno essere molto più diretti, rapidi e misurabili rispetto al passato.
Da anni il Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali studia, analizza e commenta gli investimenti in asset class alternative, giudicandole ancora troppo sottopesate nei portafogli istituzionali. I private markets avevano chiuso il 2019 con ottimi risultati dopo quasi un decennio di crescita. Nei primi 6 mesi del 2020 la contrazione è stata pari a circa il 20% nel volume degli investimenti: ciascuno in funzione delle proprie peculiarità e della propria mission, gli investitori istituzionali hanno del resto dovuto fronteggiare urgenze ben più pressanti, quali ad esempio la mancanza di liquidità o la gestione delle società in portafoglio, delle richieste di anticipazioni e di misure di welfare a sostegno della propria platea di riferimento.
Decorrelare e diversificare i portafogli è sempre più importante e anche per questo motivo gli investimenti alternativi continuano a piacere e ad aumentare le proprie quote nei portafogli istituzionali. Una recente analisi condotta dal centro studi Preqin che, a dispetto del nome (Private Equity Index) annovera nel suo database tutte le classi alternative, mostra che a livello mondiale la fame di alternativi non è calata con la pandemia; la maggioranza degli intervistati sostiene infatti che la pandemia non abbia cambiato il loro commitment verso gli alternativi per il 2020. Nel dettaglio, il 63% degli investitori non prevede alcun cambiamento nella dimensione degli impegni assunti per l’anno in corso verso queste classi di investimento.
Le attività alternative sembrano rappresentare sempre di più una certezza per gli investitori che, in questi asset, trovano una giusta dose di diversificazione con ritorni in linea rispetto alle proprie attese. Come noto, fanno parte delle classi alternative private equity, private debt, hedge funds, real estate, infrastrutture e risorse naturali. Esistono certamente molte differenze ma le opportunità che si possono trovare nei mercati privati, alcune delle quali addirittura “agevolate” dall’attuale situazione, sono innegabilmente favorevoli. Tra le classi alternative meritano una citazione particolare gli investimenti in fondi infrastrutturali che, come vedremo, possono rappresentare il miglior connubio - per capitali pazienti come quelli istituzionali – in termini di diversificazione, scarsa correlazione al ciclo economico, prevedibilità dei rendimenti e, dulcis in fundo, sostegno al Paese. Gli investimenti in infrastrutture possiedono infatti un'evidente funzione strategica: producono non solo reddito e aumento dell’occupazione nell’immediato, ma anche effetti di medio-lungo periodo come aumenti di produttività e miglioramento della competitività delle imprese e del territorio, contribuendo alla ripresa del sistema produttivo del Paese. Sono essenziali per rendere il Paese più “moderno”, per sostenere lo sviluppo economico e sociale e la sicurezza, qualità determinanti in epoca post COVID-19.
Ma quali sono le aree di intervento dell’investimento in infrastrutture e perché sono fondamentali per lo sviluppo? In particolare, si possono elencare quattro macro-categorie di infrastrutture: le reti stradali e le reti energetiche, le fonti rinnovabili e l'housing sociale. Ampliando l’analisi, l’elenco dei settori di intervento tocca moltissimi aspetti della nostra quotidianità: trasporti, autostrade, tunnel e ponti, aeroporti, porti marittimi, ferrovie e sistemi di trasporto rapido; condotti per gas e petrolio, distribuzione di gas, acqua ed elettricità, raccolta e trattamento delle acque di scarico, comunicazioni, rete dati, torri per le trasmissioni radio, cavi telefonici, satelliti; per finire con le infrastrutture cosiddette “sociali”: ospedali, scuole, palazzi di giustizia, carceri. Gli investitori istituzionali tipicamente investono attraverso veicoli, i fondi infrastrutturali, e solo in casi limitati direttamente; negli ultimi anni il contributo di questi ultimi è gradualmente cresciuto sebbene rimanga ancora limitato in termini assoluti. La speranza è che questo trend possa continuare: il “bene” del Paese deve essere messo al primo posto in questo momento storico.
Da un’indagine condotta sul database relazionale di Itinerari Previdenziali - che annualmente analizza, scompone e riclassifica i bilanci di oltre 200 investitori istituzionali tra Casse di Previdenza, Fondi pensione e Fondazioni di origine Bancaria - si evince chiaramente come l’investimento in fondi infrastrutturali sia in crescita negli ultimi anni. Se dai bilanci relativi all’anno fiscale 2016 risultavano investiti in fondi infrastrutturali 318.949.384 euro, in poco tempo siamo passati ai 837.944.957 euro del 2018 fino ad arrivare ai 928.675.135 euro del 2019 (si precisa che dal conteggio sono in questo caso esclusi i fondi energetici e i fondi a impatto sociale). L’ammontare destinato ai fondi infrastrutturali da parte dei principali investitori istituzionali italiani è triplicato in pochi anni: il trend per il 2020 vede un ulteriore aumento delle risorse destinate a questa tipologia di alternativi e quota 1 miliardo di euro di risorse investite verrà ampiamente sorpassata analizzando i bilanci 2020.
Proseguendo nel ragionamento vale la pena fare un accenno al motivo per il quale queste classi di investimento dovrebbero svolgersi sotto politiche sostenibili. La pandemia ha aperto le nostre menti verso molti aspetti sui quali riflettere: tra questi, sicuramente il fatto che le malattie respiratorie siano sempre state presenti, anche pre COVID-19, e che lo siano maggiormente nelle zone maggiormente esposte all’inquinamento atmosferico. A dimostrazione di ciò, basterà pensare che le città più colpite dalla pandemia in Italia (oltre che per ovvie ragioni di popolosità) sono risultate essere quelle più inquinate. Se i virus ci sorprendono, mutano ed è difficilissimo imparare a combatterli, quando si parla di inquinamento, tutti devono essere invece consapevoli del fatto che esistono già mezzi e tecnologie per contrastarlo. Per questo motivo occorre insistere, non solo per fare marketing opportunistico, sulle tematiche green.
Tutti temi di cui le infrastrutture energetiche rappresentano una sintesi perfetta. La naturale conseguenza dovrebbe essere investire sempre di più in infrastrutture verdi che offrono un impulso notevole alle società che possiedono e sviluppano asset fisici, come parchi solari o turbine eoliche o reti elettriche: strumenti fondamentali per la transizione verso un futuro a ridotta emissione di anidride carbonica.
Fin qui si è parlato delle opportunità e degli aspetti più “vantaggiosi” dei fondi infrastrutturali: (buoni, a volte ottimi) ritorni prevedibili, resilienza alla volatilità, sostegno all’economia reale, sviluppo dell’occupazione. Non va dimenticato che la stessa Commissione Europea ha lanciato nel 2015 un piano di investimenti (Piano Juncker) con l’obiettivo di sostenere una crescita economica stabile e sostenibile, utilizzando risorse pubbliche per far leva su investimenti del settore privato. Quel che purtroppo è certo è che la ricetta perfetta per tornare a crescere non esiste, o quantomeno presenta alcuni punti meno rosei:
- l’illiquidità o la difficile liquidabilità di un investimento “fisico”, come è del resto un fondo infrastrutturale, è certamente un freno per alcuni;
- la durata: sono almeno 5/7 gli anni di durata minima di un fondo infrastrutturale;
- burocrazia e accesso alle informazioni: alta difficoltà nel reperire informazioni e dati nella fase di implementazione, complessità dei contratti in termini di numerosità delle controparti e di ripartizione dei rischi;
- livello di rischio: durante il lockdown – ad esempio - le attività di porti, aeroporti e altre strutture di trasporto sono state pressoché sospese.
Le prospettive economiche resteranno fortemente incerte nei prossimi mesi, ed è proprio in un contesto come questo che le infrastrutture potranno esprimere meglio il loro potenziale. La migrazione verso un’economia sempre più sostenibile e tecnologica porterà a investire in infrastrutture sempre più efficienti e moderne, senza dimenticare che un importante boost arriverà anche da fondi e prestiti europei.
In finanza può risultare difficile guardare al medio-lungo periodo quando regna una tale incertezza ma, di sicuro, chi avrà investito nelle giuste infrastrutture troverà sulla propria strada un futuro meno complicato.