Sfdr, le tonalità di verde

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Massimiliano Comità, portfolio manager di Kairos. Foto ceduta

Contributo a cura di Massimiliano Comità, Portfolio Manager di Kairos.

Durante l’adolescenza ci hanno insegnato che nella vita esistono sempre due vie percorribili: quella facile, lastricata e ampia, e quella difficile, impervia e stretta. Seppur queste due opzioni lasciassero intendere una scelta, abbiamo imparato che si trattava di una mera illusione: la via per la salvezza è una sola. Lo stesso insegnamento lo sta veicolando oggi l’Europa agli istituti finanziari, circa i propri investimenti. Abbiamo più volte detto che, per raggiungere l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050, l’Europa investirà il proprio budget settennale (1.000 miliardi di euro) e i fondi raccolti dal mercato con il Recovery Fund (750 miliardi di euro). Ursula Von der Leyen e la Commissione sanno però che questo denaro non basta, e hanno più volte ribadito di aver bisogno degli investimenti privati, lasciando forse intendere la possibilità di una scelta da parte di questi ultimi se aderire al piano verde o meno. Ma forse non è proprio così.

Il 10 marzo 2021 entra in vigore la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), regolamentazione che richiede alle società d’investimento di informare i propri clienti e l’Europa in merito all’adozione dei rischi di sostenibilità nei propri prodotti. La casistica divide gli strumenti in tre grossi gruppi: quelli virtuosi, quelli che scontano i loro peccatucci nelle cornici del Purgatorio e i dannati dei gironi. Al primo appartengono quei veicoli che fanno della sostenibilità una filosofia di vita e che pensano non ci sia profittabilità senza di essa; vengono indicati come dark green o “articolo 9”, perché rientranti, appunto, nell’articolo 9 della regolamentazione. Nel secondo gruppo ricadono quegli strumenti che promuovono la sostenibilità al fianco di altri fattori, quali, a esempio, il ritorno, e che per il loro grado inferiore di purezza vengono definiti light green o “articolo 8”. Poi ci sono tutti gli altri, indistinti in un mucchio etichettato “articolo 6”.

L’onore del virtuosismo racchiude comunque in sé degli oneri, e di non poco conto.

Il gruppo appartenente all’articolo 6 dovrà esplicitare nei propri documenti il perché non tiene conto dei rischi di sostenibilità. Un’attività poco onerosa, ma che difficilmente li metterà in buona luce agli occhi di un’Europa verde. Dal lato opposto, i dark green dovranno mostrare ai propri clienti, con dati quantitativi e non solo a parole, quanto i loro investimenti siano sostenibili. Nel mezzo si trovano i light green, ai quali è richiesto almeno di indicare in che modo tengano in considerazione le caratteristiche ESG. Per fare un esempio, basterà loro specificare se il veicolo in questione utilizzi il metodo del Best in class, dell’Esclusione o altro.

In che modo, però, possiamo misurare la sostenibilità di un’attività?

Il 2 febbraio scorso, le autorità europee di vigilanza hanno pubblicato il Final Draft dei Regulatory Technical Standards (RTS) ossia regole uniformi che permettono di valutare se un investimento sia sostenibile o meno, ed hanno parimenti indicato in maniera precisa il formato da adottare per comunicare tali informazioni ai clienti nel sito web della società, nella documentazione precontrattuale e nella reportistica periodica. Si eviterà così anche il problema del greenwashing, ossia far passare per green ciò che non lo è. Non saranno solo i prodotti ad essere oggetto di verifica, ma anche gli emittenti. Una parte degli RTS riguardano infatti i Principle Advers Impact (PAI), con i quali una società dovrà specificare in che modo tiene conto dei rischi di sostenibilità nel proprio processo di investimento. Una mole di lavoro non indifferente per gli attori del mercato, che comunque avranno tempo fino al primo giorno del prossimo anno per implementare gli RTS, momento in cui entrerà in vigore anche la Tassonomia (rif. Ensign – Tassonomia) che definirà il grado di sostenibilità delle società oggetto d’investimento. Il mondo ESG di oggi è alquanto confuso. Ciascun attore dà la propria definizione di cosa sia sostenibile: alcuni si affidano a data provider esterni, che talvolta però discordano perfino nel giudizio riguardo una stessa società; altri creano classifiche interne; altri ancora implementano una soluzione ibrida, dove il giudizio del provider esterno può essere confutato da analisti interni. In questo articolato mondo, in cui l’investitore fatica a districarsi, è l’Europa a mettere ordine. Lo fa definendo regole precise verso cui tutti dovranno convergere, formule che la totalità delle entità coinvolte dovrà adottare. Le maglie si stringono, i dubbi, si spera, si dissiperanno. L’anno prossimo saremo forse in grado di distinguere un investimento sostenibile da uno che lo è solo parzialmente, oppure da un altro che non lo è affatto.

A oggi, pare che all’investitore basti che un veicolo abbia una qualche tonalità di green, dark o light che sia: i clienti istituzionali stanno inviando lettere alle società nelle quali hanno investito, per sapere in quale articolo ricadano i loro prodotti, più preoccupati dal cospicuo gruppo di articolo 6 che dall’intensità del loro verde. Immaginiamo che nei prossimi anni difficilmente vedremo il proliferare di nuovi prodotti al di fuori dei gruppi rientranti negli articoli 8 e 9. Ma pensate che in un’Europa che si sta tingendo sempre più di verde la versione light sarà ancora sufficiente in futuro?