Oro nero e commodity, tra rischi e previsioni future

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foto: autor olle svensson, Flickr, creative commons

In attesa di sapere cosa verrà fuori proprio oggi dal convegno dell'Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), in molti pensano che l'Arabia Saudita difficilmente taglierà la produzione di greggio. Un bel dilemma perché, come commenta Pascal Menges, portfolio manager del fondo LO Funds - Global Energy di Lombard Odier Investment Managers "tagliando la produzione il rischio è perdere quote, ma in caso contrario l'Arabia Saudita, e così anche altri membri dell'OPEC in modo persino più grave, perderebbe denaro trovandosi in situazione di grave deficit fiscale".La decisione insomma potrebbe essere prematura, poiché a quel punto le aziende nordamericane sarebbero incentivate a riavviare le trivellazioni.

Già lo scorso novembre i Paesi dell'Opec avevano deciso di lasciare invariato il livello di produzione del petrolio a 30 milioni di barili al giorno. E prima di quella riunione il prezzo era calato del 36%, così come anche la domanda: meno richieste da Cina ed Europa. Durante gli ultimi tre mesi, i principali indici legati al petrolio hanno in gran parte scambiato al di sotto dei 50 dollari al barile e secondo le previsioni l’oro nero potrebbe raggiungere nuovi minimi durante la prima metà del 2016.

Le ragioni del crollo del prezzo delle materie prime

Secondo il team di asset allocation di MoneyFarm SIM "il problema non riguarda solo il petrolio. Il Bloomberg Commodity Index, che riassume le performance di 22 risorse naturali è sceso di due terzi rispetto al picco del 2008, al livello più basso dal 1999. L’andamento mostra come il prezzo delle materie prime sia tornato ai valori iniziali, come se il superciclo degli ultimi 15 anni, quando la fame di carbone, petrolio e metalli dai produttori cinesi creò un mercato rialzista fino al 2011, non sia mai esistito".

Per gli analisti di MoneyFarm ci sono molti fattori che hanno contribuito al crollo dei prezzi delle materie prime. "Prima di tutto, come già detto, il rallentamento dell’economia cinese è una questione fondamentale; la Cina è stato il motore più importante per la domanda di materie prime da quando iniziò a registrare tassi di crescita del PIL a doppia cifra. Ma alla fine del 2014, la percentuale cinese di consumo globale di petrolio era pari al 10%; per rame e zinco era al 45% e per l’alluminio e il nickel superiore al 50%. Ecco perché la crescita cinese è così importante per bilanciare domanda e offerta di materie prime e per quali ragioni il recente crollo nell’import e nell’export cinesi abbiano influito sui relativi prezzi".

Un altro fattore che ha contribuito alla debolezza dei prezzi delle materie prime "è il forte apprezzamento del dollaro statunitense nell’ultimo anno. Il grafico sottostante illustra le performances del Trade Weigheted Dollar, ossia la media dei tassi di cambio contro i principali Paesi, pesata per la relativa importanza dei paesi nel commercio con gli Stati Uniti. Si nota subito come il forte apprezzamento dal 2011 sia profondamente correlato al crollo dei prezzi delle materie prime".

 
Perché un dollaro forte dovrebbe impattare sulle performance delle commodity?

"La ragione principale è che tutte le materie prime sono prezzate in dollari", spiegano dalla società di analisi. "Quando il dollaro si rafforza, ceteris paribus, ci vorranno meno dollari per comprare una determinata materia prima e da questo il ribasso dei prezzi. Oltre a questo però, ci sono effetti più indiretti, ma ugualmente importanti. Una valuta che si indebolisce tipicamente genererà un rialzo dei prezzi espressi in valuta domestica. In risposta a queste pressioni inflazionistiche, la banca centrale di un Paese importatore può ricorrere a misure restrittive, diminuendo quindi la domanda aggregata, incluso quella per materie prime. Inoltre, oltre che ad agire sulla domanda delle economie più esposte al dollaro, l’apprezzamento della valuta impatta anche sull’offerta di materie prime; si pensi infatti alle società che esportano materie prime, che si trovano in breve periodo a produrre in valuta debole (moneta locale) e a vendere in valuta forte (il dollaro USA). I loro margini di profitto aumentano in pochissimo tempo e gli incentivi a tagliare la produzione sono ben pochi.
 
Quest’ultima considerazione sul fatto di come un dollaro forte possa non solo indebolire la domanda ma incentivare la produzione di petrolio, è oggi cruciale, dato che il recente apprezzamento è stato possibile grazie al deflusso di capitali dai mercati emergenti. Se si guarda ai movimenti delle valute dei maggiori esportatori di petrolio e materie prime contro il dollaro, notiamo come il rublo russo abbia perso il 30.3% nell’ultimo anno, il real brasiliano il 31.1%, la corona norvegese il 21.6%, il dollaro canadese il 16.0% e il peso colombiano il 30.6%. Solo il Riyal saudita è rimasto pressoché inalterato, ma come molti sostengono, probabilmente ancora per poco". Data l’importanza del dollaro nel regolare la domanda e l’offerta di materie prime, il rialzo dei tassi da parte della Fed rimane un elemento centrale per il mondo delle commodity.

"Ultimo ma non meno importante, va considerato il rischio geopolitico legato all’area mediorientale", concludono da MoneyFarm SIM. "Un eventuale aggravamento delle varie situazioni di crisi in quell’area, così come l’inasprirsi dei rapporti tra Russia e Turchia, potrebbero far aumentare il prezzo del petrolio. E dato che il petrolio ha un chiaro effetto magnetico su tutto il settore, potrebbe spingere al rialzo tutti i prezzi delle materie prime, generare pressioni inflazionistiche e spingere gli investitori a investimenti più sicuri, come può essere l’oro".