L’analisi dell’head of EM Debt di LGIM sui rischi ed opportunità in quest’area, con attenzione particolare al credito e alle valute locali, ma anche all’andamento del dollaro con la nuova presidenza Trump, pronto all’insediamento il prossimo 20 gennaio.
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Una crescita globale stimata attorno al 3,2% per il prossimo anno. “Credo che la previsione si ridurrà leggermente, avvicinandosi forse al 3 per cento. Negli Stati Uniti la crescita rimarrà buona aggirandosi tra il 2,6% e il 2,5 per cento. A soffire di più potrebbe essere quella europea ma anche questo è atteso dal mercato. Mentre i Paesi emergenti dovrebbero aggirarsi attorno al 4% con un differenziale, quest’anno, di circa il 2,6%”, spiega Uday Patnaik, head of EM Debt di LGIM. Ma ciò che vale la pena sottolineare è come i mercati emergenti siano diventati il motore della crescita del PIL globale, guidando il 65% della performance economica dell'ultimo decennio “e così continuerà a essere il prossimo anno, con il traino di India e Cina”, sottolinea.
Mercato del credito emergente
Il professionista fa uno spaccato di asset class tra valuta forte e locale. “Penso che il debito in valuta forte, come quest'anno, supererà quello in valuta locale e questo in gran parte è dovuto all'andamento del dollaro. Credo che, almeno per la prima metà del prossimo anno, e soprattutto alla luce delle proiezioni sulla crescita degli Stati Uniti rispetto a quella di molti altri Paesi, assisteremo ad un dollaro leggermente più forte. Lo scenario di base per il debito in valuta forte dei Paesi Emergenti offre buone prospettive”, dice Patnaik raggiunto da FundsPeople in occasione di un suo recente viaggio a Milano.
Inoltre, l’esperto è persuaso che, sul fronte dei tassi di interesse, si possa ottenere rendimento. Il professionista di LGIM fa poi una previsione sulla prossima presidenza Trump, con un’attenzione particolare all’imposizione di nuovi dazi. “Non credo che accadrà tutto il giorno in cui si insedierà il 20 gennaio. Le tariffe sono già tutte lì, ma saranno applicate e avranno conseguenze lente. Alcune, ad esempio, saranno usate come tattica di negoziazione, magari proprio con l'Unione Europea. Mentre, credo che contro la Cina probabilmente imporrà dei dazi, e dunque in questo processo non si assisterà a un picco del dollaro proprio il 20 gennaio. Penso che ci vorrà un po' di tempo per raggiungere l'obiettivo. Quindi, come ho detto, per il 2025 preferirei ancora la valuta forte alla quella locale”, spiega.
Fattori di supporto e venti contrari
Come ogni anno, anche il prossimo ci saranno degli elementi di supporto e altri venti contrari. “Prima di tutto, come investitore a reddito fisso, ovviamente, una delle cose che guardo più da vicino è il debito pubblico. E quello relativo ai mercati emergenti è circa il 60% o poco più. Quasi la metà rispetto ai paesi del G7. “Se consideriamo un altro fattore positivo, le riserve valutarie, queste si trovano ai massimi storici anche se escludiamo Cina, India e Brasile, che sono tra i tre Paesi con le riserve valutarie più alte, siamo ancora ai massimi livelli per quanto riguarda i mercati emergente”, dice.
Il professionista sottolinea come, se si considerano i conti capitali o il deficit delle partite correnti, e se si torna indietro alla crisi finanziaria globale, si parlava dei Cinque Fragili (Paesi come l’India e l’Indonesia) con un significativo deficit delle partite correnti. “Oggi la storia è diversa: molti dei disavanzi delle partite correnti, soprattutto in alcuni dei grandi Paesi di cui parlavamo prima, sono molto più contenuti”, ammette.
Poi c’è l’inflazione. Un tema di grande attualità negli ultimi anni. “In generale le banche centrali dei mercati emergenti sono state incredibilmente responsabili durante e dopo la pandemia rispetto alle economie occidentali. Non avendo precedentemente portato i tassi a zero o in territorio negativo, hanno gestito la situazione, a mio avviso, in modo efficace. Sono stati i primi ad aumentare i tassi per contrastare l’aumento dei prezzi e con un’inflazione in calo, diverse banche centrali (es. in Latam) hanno potuto iniziare a ridurre i tassi di riferimento prima e molto più velocemente di BCE e Fed”, ammette l’esperto di LGIM.
Se poi si passa a un altro dato positivo, ovvero i tassi di insolvenza, quest'anno, per quanto riguarda gli emittenti sovrani, non ci sono stati default. “Credo che ci sia stato ufficialmente solo un default tecnico in Argentina. Ma non ci sono stati default veri e propri, come nel 2022, quando c'erano Bielorussia, Russia, Ucraina, Sri Lanka. E anche per il prossimo anno non sono previsti default per gli emergenti”, dice.
Se si guarda alle società ad alto rendimento, il tasso di default previsto per il prossimo anno è sceso a circa il 2,6-2,7 per cento. “Si tratta della proiezione più bassa degli ultimi cinque anni. Quindi anche i tassi di insolvenza stanno scendendo”, spiega.
In generale, e questo si riscontra da 20 anni, quando la Fed taglia i tassi di interesse, i rendimenti degli EM tendono ad andare abbastanza bene. “L'eccezione è stata il 2008, anno della crisi finanziaria globale. Quella è stata un'esperienza unica. Non credo che la maggior parte di noi pensi di trovarsi oggi in una situazione simile. Quindi, in linea di massima, quando la Fed taglia i tassi, e credo che si tratterà di un ciclo di tagli dei tassi poco drastico, i ME tendono a registrare buone performance”, commenta.
Due elementi che potrebbero rappresentare dei venti contrari sono il dollaro forte e il delta degli spread. “Se state comprando un'asset class in valuta forte, ad esempio le corporate, gli spread non sono molto alti al momento”, prosegue.
E ce n'è un terzo negativo che il professionista sottolinea ma che non ha avuto un vero impatto quest'anno: i flussi con il segno negativo nell'asset class. “Secondo le nostre stime, in valuta forte si tratta forse del 7% e in valuta locale di meno di 1 per cento. Un dato che va letto con attenzione poiché non c'è alcuna correlazione tra questi flussi e l'allargamento o il restringimento degli spread. L'universo investibile dei mercati emergenti alla fine dello scorso anno era di circa 27,5 mila miliardi di dollari, di cui circa 4 mila miliardi in valuta forte e gli spread si sono ridotti in modo massiccio nonostante i deflussi”, ammette.
L’approccio di investimento
L’approccio di investimento del gestore è di tipo macro, top-down. “Pensate a una sorta di imbuto: abbiamo una view macro, poi quella sul Paese, poi – nel caso del credito corporate - sulla singola azienda. Quando si ragiona sui dazi di Trump ci immaginiamo quali Paesi o aziende potranno beneficiarne e quali saranno più sensibili al tema. In passato, abbiamo affrontato i problemi legati alla presenza di catene di approvvigionamento e, in futuro, si assisterà a un'accelerazione della diversificazione lungo queste strutture. Un Paese che monitoriamo per capire quali saranno le prossime mosse è la Cina, che si sta concentrando su numerosi pacchetti di stimoli. Ma tra i beneficiari di questo processo credo ci siano Paesi come l'India”, sottolinea.
Fondo gestito
Il professionista gestisce diverse strategie, tra cui le principali sono L&G Emerging Markets Bond Fund e L&G Emerging Markets Short Duration Bond Fund.
“Abbiamo iniziato a commercializzare questi prodotti in Italia da diversi anni, dal 2019- 2020. Entrambi i fondi sono articolo 8, denominati in dollari ed entrambi hanno eccellenti track record. Abbiamo inoltre recentemente lanciato due ulteriori strategie, l’una focalizzata sul credito investment grade e l’altra sul credito high yield dei Paesi emergenti, per andare incontro alla sofisticazione della domanda degli Investitori”, conclude Patnaik.