Paura di una guerra valutaria? Leggete "Una discesa nel Maelström"

Carlo-Benetti
Immagine ceduta

Siamo o non siamo nel pieno di una currency war di dimensioni globali? Dipende. A sostenerlo, tra i primi, era Guido Mantega, il ministro delle finanze brasiliano, che ha coniato l’espressione guerra valutaria nel settembre del 2010 con l’intento di denunciare la natura destabilizzante, e di fatto ostile, della politica monetaria superespansiva adottata dalla Federal Reserve americana. Oggi però la questione torna a galla - o forse è sempre stata in superficie - e resta controversa. Nella prima giornata di lavoro del meeting 2015 di Efpa Italia, al Centro congressi del Porto antico di Genova, sono in molti a tirare fuori l'argomento. Insieme a una serie di preoccupazioni sui tassi negativi degli investimenti obbligazionari. Uno fra tutti Carlo Benetti, head of market research and business innovation di Gam SGR.

"La prima guerra valutaria fu nel '29, al'indomani della Prima guerra mondiale, quando crolla l'impero anglosassone e nasce quello americano. La seconda risale agli anni Settanta, quando Nixon mette fine all'accordo di Bretton Woods e annunicia la sospesione della convertibilità del dollaro in oro. Cambia il paradigma, crolla la fiducia nel dollaro e  "comincia la finanziarizzazione dell'economia con cambi flessibili". Oggi siamo alla terza crisi valutaria, dove emergono la Cina da una parte e l'euro dall'altra. Eppure non c'è più quella stessa disponibilità alla solidarietà globale: siamo in un'empasse come nel 1944". Allora nella mente degli economisti, come spiega tracciando un quadro storico lo stesso Benetti, era bene impressa la recente esperienza della Grande depressione, durante la quale i controlli sul tasso di cambio e le barriere commerciali avevano portato al disastro. Gli accordi di Bretton Woods diedero una speranza col noto sistema Gold Standard. Ma mentre in passato i paesi che abbandonaro il Gold Standard ebbero la più grande ripresa economica, i paesi che oggi sono in difficoltà, come la Grecia, non hanno una moneta propria da lasciare libera di fluttare.

E oggi? "Gli stessi banchieri centrali non hanno idea di come andrà a finire" , dice laconico Carlo Benetti. "Le politiche di quantitative easing sono come lo specchio di Alice: da una parte c'è il mondo reale, dall'altra i rischi. Oggi dobbiamo fare i conti con dei rapporti rischio/rendimenti alterati. Ciò richiede un'analisi maggiore. Il mondo è asincronico, l'Europa comincia a registrare segnali positivi. Ma l'economia globale e quella dei paesi sviluppati non coincidono più come negli anni '30. Adesso ci sono in scena nuovi attori, ci sono i mercai emergenti, l'export migliora ovunque per la svalutazione delle monete tranne negli Stati Uniti, che rafforzano il dollaro. Col passato ci sono certo delle analogie ma anche delle grosse differenze. E le asimmetrie rendono i Qe incerti".

Insomma, il portafoglio degli investitori è fatto di variabili e "tutte le variabili - afferma Benetti  - dipendono dalle decisioni delle Banche centrali e dei governi che, hanno aumentato il grado di sofisticazione dei loro strumenti e intervengono pesantemente. Se negli anni Settanta aveva senso il nostro lavoro, oggi non è più così semplice. Le grandezze economiche sono sovrastate dalle decisioni politiche". Cosa resta da fare allora? "Aggrapparsi al barile vuoto", conclude il manager di Gam, citando il racconto "Una discesa nel Maelström" di Edgar Allan Poe. "Piuttosto che ancorarsi all'albero della nave e andare a fondo (i titoli obbligazionari con tassi a zero), bisogna tuffarsi in mare e cercare un barile cui aggrapparsi. Dunque strategie semplici, flessibili, molto diversificate (multi-asset) con bassa volatilità".