PEPP, al via l’applicabilità dei nuovi strumenti previdenziali europei

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Christian Lue (Unsplash)

La data è arrivata. Oggi, 22 marzo, diventa applicabile il Regolamento (UE) 2019/1238 sui Pan-European Personal Pension Product (PEPP) che pone il sigillo sulla creazione di questa nuova forma pensionistica volta ad allineare, ancora di più, il panorama previdenziale del blocco. Il Regolamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’UE il 21 marzo 2021 (ed entrato in vigore 20 giorni dopo) richiedeva una serie di interventi da parte del legislatore nazionale, da qui un passaggio fondamentale nella legge comunitaria 53 del 22 aprile 2021 (entrata in vigore l’8 maggio dello stesso anno) con la delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la sua attuazione entro 12 mesi (dunque, entro maggio 2022). Appunto su questo fronte il ministero delle Finanze ha avviato una consultazione che si è conclusa lo scorso 12 marzo. La scansione temporale, perciò, trova il nostro Paese intento a definire gli ultimi dettagli di un impianto che, ancora oggi, presenta punti di contatto e differenze con il sistema previdenziale italiano e mette in luce nodi normativi ancora da sciogliere.

La consultazione del MEF

“Manca l’emanazione del decreto legislativo che deve decidere gli aspetti per l’applicazione del PEPP in Italia, in particolare relativamente alla fase di accumulo, a quella di decumulo, alla fiscalità e alla vigilanza”, afferma Antonello Motroni Area economia e finanza di Mefop raggiunto da FundsPeople. “Fintanto che non si avrà questa normativa, i PEPP non potranno essere istituiti o commercializzati nel nostro Paese”. Quella del 22 marzo, dunque, è soltanto una data “sulla carta”: anche se nel resto d’Europa saranno avviate le richieste di istituzione alle autorità competenti, il nostro Paese sconta ancora qualche settimana per l’avvio della macchina PEPP.

I punti su cui deve intervenire la normativa sono riassunti sul sito del ministero delle Finanze che ha interrogato attori del settore, destinatari e parti interessate, con la consultazione (di cui si è detto) sullo schema di decreto legislativo in cui sono comprese: le norme relative alla vigilanza, con la designazione di Covip quale autorità competente sugli obblighi del Regolamento, oltre che allo scambio con le altre autorità competenti nazionali (NCAs) e con EIOPA; l’assegnazione a Bankitalia, Consob e Ivass dello svolgimento di alcune attività di vigilanza previste dal Regolamento; la disciplina delle fasi di accumulo e decumulo (in linea con il Dlgs 252/2005).

Altri due punti, centrali nell’intervento del governo per garantire un’introduzione nel nostro sistema previdenziale riguardano la necessità di “garantire un’ampia flessibilità nell’erogazione della prestazione finale ai beneficiari, consentendo di andare incontro alle possibili diverse esigenze dei risparmiatori”; e la necessità di “non consentire la destinazione e/o il trasferimento di quote del TFR maturato e maturando ai PEPP”.

Il nodo fiscalità

Il nodo fiscalità, però, è quello che attira maggiormente le attenzioni del settore. “C’è una raccomandazione del Parlamento UE che richiede agli Stati membri di applicare la stessa fiscalità riconosciuta ai prodotti ad adesione individuale anche laddove le regole non siano perfettamente coincidenti”, continua Motroni sottolineando come il MEF, nella definizione dei criteri per adeguare la normativa italiana al Regolamento PEPP, abbia deciso di allinearsi a questa raccomandazione. “Di fatto – afferma l’esperto – la fiscalità del PEPP è la stessa riconosciuta ai prodotti del Dlgs 252/2005”. Elementi che, invece, possono creare “profili di complessità” per l’assetto italiano sono quelli relativi alla tassazione dei rendimenti, fissata al 20 per cento. “Nello schema di Dlgs si parla di tassazione dei rendimenti dei soli PEPP istituiti nel territorio dello Stato e questo chiaramente crea un problema per gli operatori che volessero istituire il PEPP in Italia. Tali prodotti, infatti, sconterebbero uno svantaggio rispetto ai PEPP istituiti in Paesi che non prevedono la tassazione dei rendimenti (larga parte dei paesi UE) e che verrebbero commercializzati in Italia in esenzione d'imposta sui rendimenti”. Si creerebbe, dunque, una disparità tra operatori italiani ed esteri. “Nella risposta alla consultazione Mefop ha messo in evidenza il problema, suggerendo che la tassazione passi dal Pepp al sottoconto nazionale”.

Un’altra questione rilevante ai fini della fiscalità è quella relativa alla prestazione: “La disponibilità di ulteriori opzioni al pensionamento (prelievi e possibilità di beneficiare sempre della prestazione interamente in capitale, in alternativa alla rendita) potrebbe presentare un vantaggio rispetto alle forme di previdenza disciplinate dal Dlgs 252/2005”, si legge nella risposta di Mefop alla consultazione del MEF. “La scelta del legislatore è stata quella di replicare la fiscalità del sistema italiano e prevedendo una meno favorevole tassazione del 23% per quanto riguarda la sola prestazione in capitale e la sola prestazione in trattamenti periodici”, continua Motroni che riporta come la stessa Mefop abbia “auspicato” l’estensione anche all’Italia “della tassazione più incentivante del modello EET (Esenzione delle somme versate, Tassazione dei rendimenti, Tassazione delle prestazioni .ndr). Tanto che, anche se non oggetto di consultazione, abbiamo ritenuto utile sollevarla nell’ambito della nostra risposta alla consultazione del MEF”.

Agazzi (Cometa): aumenta il rischio “confusione” nel sistema

Critico su obiettivi e allineamento, Maurizio Agazzi, direttore generale di Fondo Pensione Cometa, che si interroga sulla necessità di questo nuovo strumento “avendo noi una normativa che aveva già parificato, di fatto, le tre forme pensionistiche complementari (fondi negoziali, fondi aperti e PIP)”. Agazzi sottolinea come il rischio dei PEPP sia lo stesso corso con la normativa IORP 2 (in quel caso una direttiva), che aveva imposto all’Italia una ricerca di equilibrio “precario” tra disposizioni comunitarie ed europee. Una discriminante del nuovo prodotto è collegata alla sua funzione: “I PEPP richiamano il Dlgs 252 del 2005 ma non sono da assimilare ai prodotti normati da quel decreto, sono individuali ma può contribuire il datore di lavoro e, nel caso, deve contribuire soltanto in forma individuale”.

Il punto, secondo il DG di Cometa, è che con queste caratteristiche lo strumento non tenga conto di un ambiente di lavoro complesso e in evoluzione: “Quanto la contrattazione individuale può diventare preminente rispetto alla contrattazione collettiva?”. Inoltre, identificato come uno strumento “parallelo ma non uguale”, il PEPP comporta delle scelte “senza ritorno” per il lavoratore, che non può più trasferire le somme versate in un fondo complementare e viceversa. “Però, se c’è una parificazione, se è individuato come uno strumento previdenziale, non si capisce il perché di queste differenze”.

Torna, infine, ancora una volta il tema della fiscalità. “la differenza di tassazione è un altro elemento distorsivo: per intervenire sul meccanismo fiscale era necessaria fare una riflessione complessiva sugli strumenti di previdenza complementare. Peraltro non c’è un obbligo di rendita nei PEPP e questa assenza non è secondaria come fattore di successo, insieme al fatto di poter scegliere il frazionamento (come una sorta di RITA post pensione)”. Il timore, dunque, è che si ingeneri ulteriore confusione in un settore, quello previdenziale, che ha subito interventi importanti negli ultimi anni, senza però intervenire in maniera fattiva sulle possibilità intrinseche agli investimenti di lungo periodo. “Non mi pare – conclude Agazzi – che il PEPP, così come è formulato, consentirà ad esempio di indirizzare investimenti sull’economia reale. E temo che, a lungo andare, con l’evoluzione del mercato del lavoro e dei rapporti, sarà dura per i fondi pensione collettivi mantenere la loro priorità rispetto agli strumenti di previdenza privata”.