Obbligazioni indicizzate all'inflazione, uno strumento da non sottovalutare

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frankieleon, Flickr, Creative Commons

“Il peggioramento delle prospettive sull’inflazione globale non deve portare a sottovalutare le obbligazioni indicizzate all’inflazione”. A ricordarlo è Andrea Iannelli, investment director obbligazionario di Fidelity International. L’esperto spiega come l’affievolirsi del ‘reflation trade' e gli ultimi dati deludenti sui salari abbiano smorzato l’entusiasmo degli investitori per quest’asset class, che dopo una solida performance a fine 2016 e prima metà del 2017, di recente è stata messa sotto pressione dalle aspettative di un imminente calo dell’inflazione.    

Se da un lato è vero che la mancata crescita dei salari e l’inasprimento della politica monetaria dei mercati sviluppati abbiano concorso a rendere le prospettive dell’inflazione globale meno chiare rispetto a un anno fa, dall’altro Iannelli ritiene che la recente sottoperformance abbia creato opportunità in alcune aree dell’asset class. “Con numerosi potenziali fattori inflazionistici ancora all'orizzonte, l'asset class può continuare a essere un prezioso strumento di diversificazione rispetto alla duration nominale”.

L’esperto fa l’esempio concreto delle obbligazioni indicizzate all'inflazione USA, dove si è assistito a una netta rivalutazione del ‘Trump trade’ con il manifestarsi delle difficoltà legate all'approvazione delle riforme al Congresso. “I breakeven statunitensi a 10 anni si sono contratti passando da oltre il 2% a gennaio all'1,77% e l'ultima serie di dati deludenti su inflazione e salari ha aggravato la situazione”. Da Fidelity International prevedono che l’IPC primario statunitense rimarrà scarso, attestandosi il prossimo anno intorno all'1,5% mentre considerano interessanti le valutazioni dei breakeven ai livelli attuali.

“Gli investitori non credono più alla possibilità di riforme significative negli USA, pertanto qualunque passo avanti del Congresso riguardante le imposte o gli investimenti costituirebbe una sorpresa positiva. Analogamente, è probabile che le politiche protezionistiche che potrebbero determinare un rialzo straordinario dell'inflazione statunitense vengano nuovamente inserite in agenda”. L’esperto chiude il capitolo USA con un comment sul dollaro: “Il suo recente indebolimento potrebbe tradursi in un aumento dei prezzi dei beni nel 2018 a sostegno delle aspettative inflazionistiche e dei breakeven statunitensi”.

Per quanto riguarda l’Europa, invece, secondo le previsioni dell’asset manager, l'inflazione rimarrà contenuta quest'anno, nonostante il margine di rialzo nei prezzi dei generi alimentari. “A nostro aviso”, spiega Iannelli, “nel 2018 l'inflazione dell'Eurozona rimarrà in un range compreso tra 1-1,5%, ancora lontana dall'obiettivo prossimo al 2% fissato dalla BCE”. Un ulteriore ostacolo, nonché una sfida per la Banca centrale, saranno la mancata pressione al rialzo sui salari e il recente apprezzamento dell'euro.

Da gennaio 2018 potremmo assistere a un’altra graduale riduzione del programma di QE ma l’approccio adottato dal Consiglio direttivo potrebbe essere molto cauto e flessibile per tutelarsi da eventuali sorprese negative sul fronte della crescita. “Sebbene le prospettive per l'inflazione dell'Eurozona appaiano favorevoli”, conclude Iannelli, “il mercato le sta già scontando e le valutazioni giustificano una posizione di sovrappeso in considerazione del rapporto rischio/rendimento asimmetrico”.