Quanto conviene la volatilità

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Photo by Mark Asthoff on Unsplash

All’inizio del mese di ottobre 2017 l’indice VIX, stima della volatilità implicita delle opzioni sull’S&P 500 calcolato dal Chicago Board of Exchange, ha toccato il minimo storico del 9,19%. Di riflesso i mercati azionari, Borsa USA in primis, sono stati talmente tranquilli in corso d’anno che in più di un’occasione abbiamo rischiato di dimenticare la loro esistenza. Si tratta di un fatto relativamente raro ma non privo di precedenti. Chi ha qualche anno di esperienza ricorderà come anche negli anni immediatamente precedenti la crisi finanziaria la volatilità realizzata dai mercati azionari e l’indice VIX fossero scesi fino alla soglia critica del 10%.

In questo contesto non stupisce che si ritorni a parlare della volatilità come uno dei pochissimi investimenti a basso prezzo oggi possibili. Trattare la volatilità alla stregua di un’asset class è ovviamente improprio; essa è piuttosto una stima della variabilità dei rendimenti di una asset class, ovvero, nel caso della volatilità implicita delle opzioni, dell’incertezza ad essa associata. Tuttavia, fin dalla metà degli anni 2000 esistono veicoli di investimento collettivo che consentono di beneficiare delle variazioni del VIX e di altri indici della volatilità delle opzioni. Ricordo, infatti, che il primo fondo UCITS indicizzato alla volatilità implicita nacque nell’ormai lontano 2005 in un contesto non molto dissimile da quello attuale: si trattava del fondo di diritto francese CA-AM Volatilite Actions. Per quanto questo fondo fosse bidirezionale, potendo cioé risultare a seconda dei casi acquirente o venditore di volatilità, l’idea era ovviamente di sfruttare un eventuale aumento della volatilità che si sarebbe prima o poi presentato. Questo, insieme ad altri fondi monodirezionali nati in quel periodo, veniva proposto come utile fonte di diversificazione e potenzialmente di protezione per portafogli connotati da un rischio azionario.

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Flop post 2008

Le premesse con cui era nato CA-AM Volatilite Actions si avverarono di lì a qualche tempo. A causa della crisi finanziaria la volatilità implicita delle opzioni passò dal 10% di fine 2006 al picco dell’80% di fine 2008. Nello stesso periodo il fondo in oggetto conseguì un rendimento positivo del 30% a fronte di una perdita prossima al 40% da parte dell’indice DJ Euro STOXX 50 su cui esso si basava. Altri fondi esistenti all’epoca, mi riferisco in particolare a LFP Long Vol e CCR Long Vol, ebbero risultati più o meno simili. 

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La storia di questi fondi post 2008 non è, invece, di successo. Solo il CA-AM Volatilite Actions esiste ancora nella sua versione lussemburghese e ha masse significative. Altri lanci di fondi avvenuti dopo il 2008 non hanno avuto esito positivo, mentre resiste sul mercato qualche ETF fortemente a leva sul VIX. Le ragioni di tale insuccesso sono riassunte nel grafico di sopra, in cui si evidenziano i principali episodi di volatilità degli ultimi anni, la loro durata e l’impatto sul VIX.

A partire dalle scosse telluriche dell’Eurozona, l’entità di questi episodi si è fatta sempre più ridotta nel tempo e nelle dimensioni. Questo non è senz’altro il contesto ideale per la strategia in oggetto perché non fornisce né al gestore né all’investitore finale la possibilità di consolidare i guadagni realizzati con la volatilità al rialzo, ammesso che ve ne siano stati: in alcuni casi, infatti, il rialzo della volatilità implicita è stato inferiore a quello della realizzata, vanificando gli sforzi di chi li aveva scelti con finalità di ‘tail risk hedging’. 

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Forti dell’esperienza del 2008, l’utilizzo di questo genere di fondi è stato proposto proprio in quest’ultima veste come alternativa alle più classiche forme di ‘safe haven’. Tuttavia, il bull market più lungo della storia ha dimostrato come essi presentino per l’investitore un costo molto elevato: richiedono, infatti, una significativa allocazione di capitale e bruciano cassa anche in condizioni di volatilità stabile. Queste due caratteristiche ne sconsigliano l’utilizzo a tempo indeterminato, tanto più se l’intenzione è di coprire il portafoglio dal rischio di rialzi improvvisi della volatilità di mercato (ad esempio, a causa di un attacco terroristico) in un contesto sostanzialmente benigno. Il vantaggio sarebbe, infatti, temporaneo a fronte di una continua erosione nelle fasi di plateau della volatilità. Ciò posto, non posso escludere che di fondi ed ETF direzionali sulla volatilità si ritorni a parlare a fronte di un bear market conclamato, tanto più qualora le obbligazioni governative a massimo rating, tradizionale fonte di protezione in quel contesto, non fornissero il contributo abituale.