Scontro USA-Cina, cosa cambia da un punto di vista strategico?

Foto: Giorgio Fata
Foto: Giorgio Fata

Secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale la Cina crescerà nel 2019 al ritmo del 6,2% mentre si appoggerà al target stabilito da Pechino nel 2020 attestandosi al 6%. Una revisione al ribasso del -0,1% per entrambi gli anni rispetto alle previsioni immediatamente precedenti dello stesso FMI, motivata principalmente dalla dinamica di guerra commerciale in atto con gli Stati Uniti le cui prospettive di breve termine rimangono incerte in attesa del prossimo incontro, altamente probabile ma non ancora certo, tra Donald Trump e Xi Jinping previsto in occasione del G20 di Osaka in programma il 28 e 29 giugno.

Un problema tattico o strategico?

“Lo scontro commerciale in atto rappresenta un elemento importante da tenere in considerazione in un’ottica strategica perché, anche assumendo il raggiungimento di un accordo di breve, coinvolge tematiche complesse e potenzialmente connesse a volatilità nel medio-lungo periodo”, afferma Carlo Mogni, senior fund manager di Investitori SGR, società del gruppo Allianz. “D’altro canto”, sottolinea però Mogni, “si tratta di una situazione abbastanza tipica per l’investimento nei mercati emergenti, spesso sottoposti a tensioni geopolitiche più o meno elevate alternativamente nelle diverse aree geografiche”. Di avviso parzialmente differente Filippo Valvona, fund selector della divisione Fund Research and Manager Selection di Amundi SGR, secondo cui “al netto di azioni tattiche che possono essere messe in atto in questa fase, da un punto di vista strategico nulla cambia poiché la Cina continua a viaggiare al di sopra del 6%, contribuendo in modo decisivo alla crescita globale con un ampio differenziale rispetto ai mercati sviluppati”. View condivisa da Antonio Peruggini, portfolio manager di Fideuram Investimenti SGR, che fa notare come si configuri un’occasione di esposizione a sconto a trend ben più ampi della contesa in corso. “Adottare un orizzonte di investimento di lungo periodo”, afferma, “è il modo migliore per superare l’impatto in termini di volatilità derivante dai quei fattori esogeni particolarmente rilevanti per quanto riguarda i mercati emergenti”. “Oggi”, argomenta, “il grande tema è ovviamente quello della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ma in questo caso i due Paesi hanno chiaramente troppo da perdere da un’escalation prolungata della disputa sui dazi per non ipotizzare il raggiungimento di una qualche forma di accordo, i cui esiti e tempistiche sono tuttavia al momento impossibili da prevedere”.

Un accordo probabile ma ancora tutto da costruire

“Ovviamente siamo molto concentrati sul tema”, dichiara John Malloy, portfolio manager Emerging Markets Strategies di RWC Partners, “studiando a fondo gli impatti, sia da un punto di vista settoriale che geografico, sulle singole aziende in cui investiamo”, definendoli nel complesso contenuti e limitati ad alcune aree specifiche delle economie dei Paesi emergenti, come ad esempio quella agricola. “Se analizziamo poi le prospettive di più breve periodo legate ai contendenti”, aggiunge, “possiamo notare come tanto Xi Jinping quanto Donald Trump abbiano in questo momento un estremo bisogno di una crescita solida delle rispettive economie, poiché uno scenario opposto significherebbe minori possibilità per l’attuale presidente degli Stati Uniti di essere rieletto e, sul fronte cinese, probabili tensioni valutarie e nel mercato del lavoro”. Una situazione che spinge dunque verso un accordo seppur ancora dai contorni difficilmente pronosticabili, come fa notare Eoin Donegan, portfolio manager, equity multi-manager strategy di Mediolanum International Funds, invitando però a guardare oltre lo specifico dello scontro riaccesosi negli ultimi mesi. “Il contributo dei mercati emergenti alla crescita globale”, sostiene Donegan, “rende l’asset class irrinunciabile per gli investitori in un orizzonte di medio e lungo periodo”. “Non c’è dunque dubbio”, conclude, “che la fase che stiamo vivendo rappresenti un’opportunità di aumento dell’esposizione all’asset class seppur in modo selezionato e con una continua analisi degli impatti dell’evoluzione delle tensioni tra Stati Uniti e Cina”.