UK bye bye. E adesso?

Theresa May
The Primer Ministers Office, Flickr, Creative commons

L’unica cosa certa è che indietro non si torna. La richiesta è ufficiale: Theresa May ha consegnato la lettera a Bruxelles, invocando l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, aprendo così la trattativa per l’uscita dall’Unione. L’impresa inglese è temeraria, il solo cambio della regolazione è ciclopico, siamo di fronte a una sorta di riscrittura delle norme, a una rifondazione del Paese. Chi dice che non accadrà nulla si sbaglia, come si sbagliava chi affermava che sarebbe crollato tutto. La premier britannica si dice ottimista e parla di una nuova Gran Bretagna “prospera, aperta e goblale”, ma i suoi ex soci le ricordano che il divorzio sarà peggio del matrimonio. “C’è un enorme somma di denaro in gioco e mentre il Regno Unito esige un’uscita à la carte, scegliendo con cosa restare, l’Ue si aggrappa ad un unico menù, con opzioni fisse”, spiega Howard Cunningham, gestore obbligazionario in Newton, filiale di BNY Mellon IM. Come dice l’esperto, al momento tutto può accadere. “Non sappiamo nulla di quali accordi verranno siglati in merito a questioni come il passaporto europeo, gli accordi commerciali o aspetti specifici in alcuni settori. Probabilmente la posizione iniziale dell’Ue e dei suoi 27 membri sarà quello di lanciare un messaggio di fermezza al Regno Unito, nel senso che non si può decidere di conservare e mangiare la torta allo stesso tempo”, dice Cunningham.

Un divorzio tutto da negoziare

Se è vero come afferma Michael Metcalfe, responsabile macro strategy di State Street Global Markets che “il ricorso all’art. 50 era già stato anticipato”, è anche vero che “il fatto che le negoziazioni ora entrino nel vivo potrebbe esporre i mercati finanziari a una maggiore vulnerabilità ai commenti da parte di funzionari britannici e/o europei su quanto, nel bene o nel male, emergerà dalle discussioni iniziali. Il rischio notizia, se mai veramente scemato, ora è ritornato”. Al di là del rischio notizia però, secondo il suo collega Bill Street, responsabile investimenti per l’area EMEA di State Street Global Advisors, il problema si gioca tutto nel prossimo futuro. “L'impossibilità di prevedere l’evoluzione di futuri negoziati impedisce allo stato attuale qualsiasi corretta valutazione dei prezzi”, ribadisce, “ma nel corso dei prossimi due anni il processo scatenerà senza dubbio la volatilità e manovre più ampie sul livello dei prezzi”.

Le future relazioni sono al centro anche dei commenti in Schroders. “La prima area di dibattito sarà il costo dell’uscita, basato sulle attuali liability del Regno Unito. Questa questione può potenzialmente ritardare i negoziati su altri aspetti, con il rischio per entrambe le parti di non avere più tempo per completare le trattative e per arrivare a una conclusione adeguata e quindi a un assestamento per il Regno Unito”, dice Azad Zangana, senior european economist & strategist della SGR. “Al di là delle procedure immediata della rottura, dovrà essere concordato il quadro generale per le future relazioni. Il Regno Unito potrebbe rinunciare al commercio agricolo, in favore dell’industria farmaceutica o dei servizi finanziari. Sembra ci sia il desiderio di negoziare settore per settore, ma l’UE probabilmente desisterà, quindi non è chiaro come si svolgeranno le trattative”.

Per le SGR la cosa più importante ad ogni modo è capire quali saranno gli effetti di questi negoziati a lungo termine. lo importante es conocer cuáles serán los efectos a largo plazo del divorcio. Jim Leaviss, head of retail fixed interest di M&G Investments non ha alcun dubbio sul fatto che il divorzio dipenderà dalle relazioni commerciali: "maggiori barriere commerciali avranno un impatto significativo sulla crescita e sulla produttività. In ogni caso, molto dipenderà da come si svilupperanno i negoziati nei prossimi due anni, ed è troppo presto per immaginare quale sarà l’effetto sui mercati finanziari. Naturalmente il miglior scenario possibile sarebbe quello di un divorzio civile, con negoziati costruttivi e di basso profilo, così da minimizzare ogni potenziale impatto sulla domanda. Qualsiasi segnale nella direzione di un divorzio duro, insieme ad un irrigidimento della retorica da entrambe le parti, comporterebbero probabilmente un impatto più importante sulla domande ed, eventualmente, una recessione".

L’economia della Regina a rischio?

Le conseguenze insomma non sono prevedibili, ma qualcuno ha provato a quantificarle. Si tratta del Ceps, il think tank di Bruxelles dell’economista Daniel Gros, che ha elaborato uno studio per conto del Parlamento europeo. Le perdite saranno diverse a seconda del tipo di uscita, soft o hard: ma per l’Ue l’impatto si attesta tra lo 0,11% e lo 0,52% in dieci anni; contro un calo annuo tral’1,31 e il 4,21% per il Regno Unito, che può toccare quota 7,5% se dalla City dovessero fuggire anche le multinazionali. Abbastanza comprensibile il motivo: uscendo dall’Ue, Londra non funzionerebbe più come hub per l’Europa perché si perde il passaporto europeo, la libertà di vendere servizi e prodotti su tutto il territorio sovranazionale. Un disastro per una città che esporta, sempre secondo i dati del Ceps, 122 miliardi di euro in servizi finanziari oltre i 184 miliardi (pari al 7,5% del PIL) di beni manifatturieri verso l’Europa.

Poi c’è la questione volatilità dei mercati, ma anche e soprattutto  il problema sterlina che, come riferisce Paul Hatfield, global CIO di Alcentra (BNY Mellon) “potrebbe indebolirsi ancora, con implicazioni sulle obbligazioni e sui prestiti denominati nella valuta britannica. Ci aspettiamo un calo delle emissioni nel corso dei mesi a venire”. Con una sterlina più debole, le pressioni inflattive in Gran Bretagna potrebbero continuare ad accumularsi. “Se i consumatori britannici continueranno a ridurre le spese al dettaglio, potremmo vedere dei ribassi nel settore dei beni di consumo” aggiunge Hatfield.

Il deprezzamento della moneta britannica preoccupa anche gli analisti di Schroders. Sopratutto per gli effetti inflazionistici sui prezzi che impattano sulle famiglie. “Abbiamo visto l’inizio di un rallentamento dell’economia domestica, che probabilmente potrebbe spingere a nutrire maggior timori sulle small cap”, spiega Keith Wade, chief economist della SGR. “Nel caso di negoziati sulla Brexit particolarmente difficili, potremmo vedere periodi di decisa debolezza della sterlina, che potrebbero a loro volta dare un ulteriore supporto alle società che producono utili sull’estero. Il problema principale si creerebbe nel caso in cui, con serie perturbazioni a livello politico, calasse la fiducia verso la sterlina stessa e l’intero Regno Unito. Dovessimo assistere a una trasmissione dei ripetuti crolli della valuta britannica alle attese sui prezzi e sui salari, la Bank of England sarebbe costretta a effettuare una stretta monetaria. Credo che ciò comporterebbe un contesto molto difficile per i mercati nel Regno Unito, specialmente obbligazionari”.