Sono passati ormai dieci anni dallo studio di Cremers e Petajisto, nel quale proponevano il famoso – e controverso – concetto di “active share” come strumento per misurare la deviazione percentuale delle posizioni di un portafoglio rispetto al suo indice. Si tratta di un parametro che indica il livello di gestione attiva attribuibile al team di gestione, molto popolare tra gli investitori perché di grande importanza per giustificare le commissioni applicate da un fondo.
Se consideriamo una scala dove lo 0% indica il livello di un portafoglio che replica totalmente il suo indice di riferimento e il 100% quello di uno che non coincide affatto con esso, il limite della gestione attiva si colloca normalmente al 60%. In altre parole, è particolarmente difficile che un fondo riesca a battere l’indice dopo le commissioni se possiede meno del 40% delle posizioni diverse rispetto al benchmark di riferimento. Per questo, alcuni enti regolatori europei – tra cui ESMA – hanno iniziato a prendere provvedimenti contro i fondi che si fanno passare per gestione attiva mentre, in realtà, si comportano quasi come fondi indice, atteggiamento che si conosce come “closet tracking” o gestione passiva occulta.
Nonostante ciò, sembra che gli investitori siano un passo avanti ai regolatori perché, come evidenzia Morningstar nel suo rapporto Active Share in European Equity Funds, “i fondi con un active share superiore hanno ottenuto molti più flussi negli ultimi anni rispetto ai prodotti meno attivi”. I dati Morningstar non solo confermano che, in generale, i fondi più attivi si comportano relativamente meglio ma anche che la pressione dei prodotti di gestione indicizzata, che applicano commissioni di gran lunga inferiori, ha obbligato i fondi attivi a giustificare il valore apportato con migliori risultati.
Uno su cinque
Le differenze sono significative anche da un punto di vista geografico. Per esempio, "tra i fondi campione domiciliati in Italia, il 66% degli asset risiedono in prodotti che hanno mantenuto un active share inferiore al 60% negli ultimi tre anni. In Svizzera, pare che la metà dei fondi attivi replichi l’indice, anche se la proporzione è meno significativa in termini ponderati per asset”, spiega il documento.