Cosa c'è dietro il divorzio tra rischio e rendimento?

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foto: autor Artemuestra, Flickr, creative commons

Uno degli assiomi più conosciuti nel mondo dell'asset management è che per ottenere rendimenti più elevati, è necessario assumere un livello di rischio maggiore. Storicamente, gli investimenti ad alto rischio hanno prodotto risultati migliori nel lungo periodo e questa idea ha ispirato generazioni di investitori ad assumere rischi, sperando di massimizzare i profitti. "Il problema è che, nella pratica, sta accadendo l'esatto contrarioil contrario", dice John Authers in un recente articolo del Financial Times.  Secondo Authers, la ricerca accademica mostra che, negli ultimi decenni, i valori con minor rischio hanno sovraperformato quelli più rischiosi, il che suggerisce che i mercati sono profondamente distorti e capitali male allocato. Come spiegare questo comportamento? Andrea M. Buffa della Boston University e Dimitri Vayanos e Paul Woolley della London School of Economics, potrebbero avere la risposta. In uno studio pubblicato nel settembre di quest'anno, gli esperti concludono che il rapporto tra il rischio e la redditività è stato distorto, perché i gestori di fondi attivi tendono ad avvicinarsi sempre di più ai loro indici di riferimento.

I numeri parlano chiaro: tra il 1970 e il 2011, il 25% delle azioni americane più sensibili al mercato ha registrato un rendimento medio annuo del 7,2%, con il doppio del rischio (definito in base alla volatilità) rispetto al 25% dei valori meno sensibili al mercato. Tuttavia, quest'ultimi ha ottenuto un rendimento medio annuo del 10,6%. Questa inversione del rapporto rischio-rendimento è ancora più pronunciata dal 1984 in poi, perché negli ultimi trent'anni, le azioni globali più conservatrici hanno reso di media il 10,1% rispetto al 4,1% generato da quelle più rischiose. 

Gli esperti indicano come punto di svolta l'anno 1968 e attribuiscono il cambiamento al fatto che, a partire da tale data, l'allocazione del capitale viene controllato da grandi istituzioni, e non dai singoli investitori, che tendono a stare di più a ridosso dell'indice di riferimento. Come dice Authers, "si è soliti confrontare i gestori 'attivi' con l'indice, il che li porta a non discostarsi troppo per minimizzare il rischio di fare peggio, aggravando il naturale comportamento aggregante degli esseri umani".

Per degli autori dello studio, le posizioni infra e sovrappesate in valori con una elevata ponderazione nell'indice, in combinazione con la volatilità dei prezzi, possono arrivare ad avere un profondo impatto sulla redditività del portafoglio, in modo che i gestori hanno un forte incentivo per aderire all'indice nel caso di valori più grandi e più rischiosi. Tuttavia, questa strategia elimina i premi di rischio associati a tali valori e, di conseguenza, conduce infine alla inversione del rapporto tra rischio e rendimento.

Sembrerebbe che la soluzione sarebbe quindi quella di abbandonare gli indici di riferimento. "Ma, con cosa sostuirli? Se non misuriamo i fondi rispetto ad un indice, come valutarli? Si chiede Authers. Per Paul Wooley, la risposta sarebbe di "fare un'analisi molto più approfondita, controllare che le decisioni di investimento dei gestori si fondino sul valore, che le rotazioni del portafoglio non siano molto frequenti, ecc. E, cosa più importante, i premi non devono essere collegati alla performance annuale, ma al comportamento di lungo termine", conclude.