Previsioni sull’oro nero alla vigilia della riunione dell’OPEC e analisi dell’impatto dell’amministrazione Trump sullo shale oil.
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Le quotazioni di Brent e WTI (i principali indici di riferimento dei prezzi del petrolio per Europa e Stati Uniti) oscillano tra i 40 e i 50 dollari al barile dall’estate. Mentre il mercato sta ancora digerendo gli ultimi avvenimenti (come il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi) e si prepara ad altri appuntamenti (come la riunione della Fed di dicembre), nel mezzo c’è un evento in calendario che potrebbe rivelarsi decisivo: parliamo della riunione dell’OPEC del prossimo 30 novembre. Anche se a ottobre si era parlato del taglio della produzione di petrolio giornaliera di 700 mila barili, l’accordo non è ancora stato formalizzato e sarà sicuramente oggetto di dibattito nei prossimi giorni.
“Se l’OPEC accetterà di ridurre la produzione questo mese, la decisione beneficerà chiaramente il prezzo del greggio”, affermano gli esperti del team azionario di M&G Investments. Dalla società consigliano di “soffermarsi sulle decisioni dei consigli di amministrazione delle compagnie e sul loro personale più che sul prezzo, dal momento che sono questi i fattori essenziali per definire una gestione del capitale sufficientemente disciplinata ed efficiente per offrire rendimenti attrattivi agli investitori”.
Di conseguenza, anche se i membri del team precisano che “non bisogna prendere alla leggera le decisioni dell’OPEC”, ritengono che “il punto centrale non è verso quale direzione si orienteranno i prezzi del petrolio ma se le compagnie petrolifere hanno imparato la lezione: anche se un aumento del prezzo potrebbe beneficiare tutte in un primo momento, nel medio termine la differenza è sostanziale”.
Gli investitori si stanno già preparando a questo possibile sviluppo che limiterebbe l’offerta e, di conseguenza, potrebbe contribuire a incrementare i prezzi e le pressioni inflazionistiche. Tant’è vero che nella settimana precedente alla riunione “gli asset vincolati all’energia hanno mostrato segnali di vita, questo per la pressione esercitata sull’OPEC che deve annunciare i risultati”, commenta Christian Gattiker, chief strategist e global head of research di Julius Baer.
Un nuovo picco di produzione dello shale oil?
Intanto, gli investitori hanno iniziato anche a mettere in conto l’impatto dell’amministrazione Trump sulla produzione di shale oil (o petrolio di scisto), l’elemento che aveva portato l’OPEC a dichiarare una guerra dei prezzi più o meno un anno e mezzo fa. “Se esiste un punto di incontro tra l’ala populiste e quella fiscale conservatrice del partito repubblicano, è proprio sulla politica energetica. È probabile che le compagnie energetiche ricevano sgravi fiscali sotto l’amministrazione Trump”, commenta Saurabh Lele, senior analist di Loomis Sales (filiale di Natixis Global AM).
L’esperto, che crede che potrebbero approvarsi progetti di oleodotti attualmente in stallo, specifica nonostante che “il potenziale impatto sui prezzi del greggio non è chiaro al momento, anche se con meno legislazione, mi aspetto un lieve aumento di produzione di petrolio negli USA”. Dall’altra parte, sottolinea che un rafforzamento del dollaro potrebbe portare con sé un leggero calo nei prezzi del greggio, mentre “uno stimolo forte al sistema di infrastrutture negli Stati Uniti potrebbe comportare una domanda nel consumo del petrolio”. In più, l’esperto ritiene probabile che “le politiche di energia alternativa subiscano tagli nei prossimi quattro anni”.
Un’altra pedina importante di questo quadro geopolitico è l’Iran, che quest’anno ha recuperato la produzione di petrolio dopo anni di sanzioni da parte degli USA. “Non è chiaro come l’amministrazione Trump tratterà la situazione iraniana. Se il neo presidente prenderà la strada dell’isolazionismo, eliminerà il trattamento attuale e reintegrerà le sanzioni, ciò potrebbe essere positivo per i prezzi del petrolio”, afferma Lele.
Jeremy Baker, senior commodities strategist di Vontobel AM, crede che se si dovesse concretizzare il macro programma di costruzione di infrastrutture negli Stati Uniti, il suo effetto sarebbe “indubbiamente positivo dal momento che sosterrebbe la domanda di materie prime di uso industriale e integrerebbe la parte che manca al puzzle delle materie prime, vale a dire l’inflazione”.
Tuttavia, il veterano esperto crede che la promessa elettorale di Trump di fomentare la produzione statunitense di petrolio e gas per raggiungere l’indipendenza energetica non si realizzerà. “Se ne parla dai tempi di Nixon, che nel 1973 aveva annunciato il Progetto Indipendenza”, spiega Baker. Il progetto non potrà essere possibile perché “l’indipendenza permanente e nel lungo termine dell’energia statunitense non si otterrà attraverso l’apertura dei portelli di petrolio e gas, è semplicemente una prospettiva errata”. L’esperto afferma, invece, “che l’indipendenza energetica nel lungo termine si potrà ottenere solo mediante una riduzione della domanda, ad esempio, con cambiamenti nello stile di vita del consumatore statunitense medio”.
L’esperto di Vontobel AM, infine, richiama l’attenzione sull’impatto delle politiche espansive di Trump sulla curva dei tassi, che se dovessero implementarsi accelererebbero molto probabilmente il ciclo attuale di rialzo dei tassi di interesse. “Questo in sé per sé sarebbe una sfida per i produttori nazionali onshore”, afferma Baker. Quello a cui si riferisce è che uno dei sostegni di questa giovane industria è stata la disponibilità di credito abbondante e a buon mercato. Tuttavia, “incrementare il pompaggio, nonostante la persistenza di flussi di cassa negativi, man mano che si riduce la disponibilità di credito e aumentano i tassi di interesse, non si sposa con una produzione onshore sostenuta”, conclude il consulente.