Gestori vs Fintech: opportunità o rischio?

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Ilya Pavlov, Unsplash

(Tratto dalla rivista numero 26 Funds People)

Un fondo gestito da un robot? Esiste già da quasi due anni. L’hanno lanciato due società tedesche. Entrambe si sono associate per creare il BayernInvest Acatis KI Aktien Global Fonds, prodotto azionario globale controllato completamente dall’intelligenza artificiale, giacché nessun gestore interviene nel processo decisionale. Al momento il fondo è registrato alla vendita solo in Germania. L’investimento minimo è di 50.000 euro, è rivolto a una clientela istituzionale e ha un TER dell’1,03%. Ma potrebbe essere il primo passo per una rivoluzione nel settore del risparmio gestito, come insegna d'altronde anche la decisione, presa già qualche tempo fa da BlackRock, di sostituire alcuni gestori con l'intelligenza artificiale. I buoni risultati ottenuti dai processi d’investimento quantitativi fanno sì che alcune entità, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, scommettano su modelli di gestione che seguono un approccio meno umano e più sistematico. BlackRock, appunto, ma anche J.P. Morgan AM e Goldman Sachs sono solo alcune delle grandi case che stanno cercando di fare affidamento sulla tecnologia per generare risultati migliori per i loro clienti.

Gestori a rischio...

Non è un caso se l’ultima indagine di PwC sul Global FinTech segnala, tra le altre cose, che l’industria dell’asset e wealth management sia una tra le più soggette al rischio disruption per effetto della tecnologia, nonostante solo il 60% dei gestori tradizionali, tra cui anche quelli wealth, pensino di essere a rischio. Ovvero sottostimano la possibilità di perdere quote a causa del fintech. E farebbero male, almeno secondo l’ultimo Word Wealth report di Capgemini. Nonostante i wealth manager tradizionali abbiano garantito rendimenti superiori al 20% agli HWNI, questi si sono dichiarati insoddisfatti della relazione con il proprio gestore: quest’ultima deve infatti essere consolidata anche “offrendo un’innovativa customer experience digitale”. Anche perché più della metà degli HNWI intervistati da Capgemini è pronta a sperimentare l’offerta delle BigTech.

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“La rivoluzione digitale ha già completamente cambiato moltissimi segmenti dell’industria finanziaria. Si pensi per esempio ai pagamenti”, spiega Paolo Galvani, fondatore e presidente di Moneyfarm. “L’asset e wealth management è un segmento ad alto valore aggiunto dove la componente umana resta ancora preponderante rispetto a quella tecnologica. Per questo motivo il cambiamento è stato più lento, e credo che questi report evidenzino il fatto che la rivoluzione digitale debba ancora avvenire (se un settore è ad alto rischio disruption nel 2019 significa che ha retto particolarmente bene l’ondata digitale). Questo non vuol dire che il cambiamento non è in atto: solo chi sarà in grado di creare reale valore per i clienti riuscirà a sopravvivere in un contesto altamente competitivo”. Per questo, secondo l’esperto, la strada da percorrere sarà quella della collaborazione. “I gestori tradizionali hanno grandi risorse e capacità distributive estese, ma non sempre sono in grado di innovare. Penso che il 2019 sarà l’anno in cui vedremo intensificarsi le collaborazioni commerciali tra industria tradizionale e fintech”, dice Galvani.

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...o convivenza pacifica?

Per Luca Valaguzza, chief product officer di Euclidea, invece, su questo tema c’è molta confusione. “Il fintech è disruptive perché ha creato un nuovo modo di investire i soldi di ogni risparmiatore. Ma la novità vera è la possibilità di investire saltando qualsiasi canale distributivo, che sia la banca o il consulente finanziario, con un’interazione totalmente digitale. È ovvio che a supporto di un’interazione totalmente automatizzata per la costruzione del portafoglio sul web ci sia molta automazione, ma in ultima istanza dietro ad ogni portafoglio modello c’è sempre l’umano. Il gestore? Sì, certo. Noi per esempio in Euclidea utilizziamo sofisticati algoritmi sia per la selezione dei fondi ed ETF sia per l’asset allocation, ma alla fine del processo c’è sempre un comitato investimenti fatto da professionisti con esperienza trentennale per un eventuale overlay qualitativo. Da questo lato dell’offerta ci sarà sempre un gestore umano, e io personalmente diffido sempre dai modelli totalmente automatizzati, avendone visti troppi saltare nel modo degli hedge fund”, precisa l’esperto.

La linea più battuta, dunque, sembra quella della convivenza pacifica. Per adesso, le società di gestione stanno scommettendo sul tandem gestore-macchina, che aiuta i professionisti nel loro lavoro quotidiano, ma il fintech non smette per questo di rappresentare una potenziale minaccia, rendendo la relazione un continuo odi et amo.

Secondo gli esperti del colosso europeo Amundi, è necessario adattare “il modo di lavorare per essere in grado di offrire soluzioni di risparmio che tengano conto dei nuovi sviluppi tecnologici. Ecco perché investiamo molto nella nostra piattaforma IT. Tuttavia, riteniamo che la nostra attività sia soprattutto quella di consigliare ai clienti un approccio globale alle loro risorse. Ecco perché dobbiamo essere al 100% digitali e al 100% umani”. Anche per le società di gestione italiane più piccole e indipendenti la convivenza sembra sia la scelta migliore. “Sono già almeno dieci anni che gli algoritmi hanno fatto irruzione nell’asset management per quanto riguarda la gestione di portafoglio e le scelte d’investimento”, dice Matteo Serio, socio e direttore commerciale di AcomeA SGR. “In alcuni casi i risultati sono stati eccellenti, in altri molto meno. Nella partita tra macchina e uomo, di fatto, non si può dire che la tecnologia abbia battuto il gestore fisico, né è prevedibile un esito a favore dell’uno piuttosto che dell’altro”, taglia corto l’esperto. Come a dire, che la partita è più aperta che mai.

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