Green inflation, come ne tengono conto gli investitori?

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La lotta al cambiamento climatico è diventata una priorità di governi e istituzioni, che devono agire in maniera concreta ed efficace per ridurre le emissioni di carbonio almeno del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Questi obiettivi richiedono investimenti importanti per il loro raggiungimento, ma chi pagherà il prezzo più alto? L’Europa già nel 2005 aveva lanciato il mercato dell’ETS (Emissions Trading System) che attribuisce un prezzo alle emissioni, pertanto le aziende inquinanti sono tenute a subire un costo per inquinare, mentre quelle che riescono a ridurre le emissioni, potranno vendere permessi.

Come in ogni mercato efficiente, il prezzo viene determinato dalla domanda e offerta, tuttavia la ripresa economica post Covid-19 ha complicato la situazione. Da un lato aumenta la domanda di materie prime per favorire la crescita, dall’altro l’Europa, per dare una maggiore spinta alla transizione ecologica, sta tagliando questi permessi. Il Network for Greening the Financial System stima, infatti, un incremento del prezzo delle emissioni di carbonio di tre dollari a tonnellata entro la metà di questo decennio, circa 150-200 dollari sino ad arrivare a 700-800 dollari entro il 2050. A subirne le conseguenze saranno probabilmente i consumatori finali. Questo è uno scenario che un investitore istituzionale deve tener conto al momento di costruire il suo portafoglio green. Ne abbiamo discusso nella seconda parte della tavola rotonda sull’impatto del cambiamento climatico nei portafogli.