Novelli (Lemanik): "la luna di miele tra banche centrali e mercati sta per finire"

maurizio_novelli
immagine concessa

“L'esaurimento dell'efficacia delle politiche monetarie delle Banche Centrali non lascia altra scelta se non implementare politiche fiscali espansive: il solo sentirne parlare metterà in moto un rialzo sui tassi Usa che avrà conseguenze per tutte le asset class. Per rendersi conto della possibile volatilità a cui potrebbero essere sottoposti i mercati obbligazionari, e, di conseguenza, anche quelli azionari, occorre riflettere su come si è trasformato il mercato del credito e sull'importanza assunta da i fondi d'investimento fixed income, ormai finanziatori primari del sistema economico mondiale”, spiega Maurizio Novelli, gestore del Lemanik global strategy fund, un fondo che rientra nella classifica dei Blockbuster di Funds People.

Dopo la crisi del 2008, le banche internazionali hanno nettamente ridimensionato lo stock del credito fornito all'economia e si è assistito a una forte crescita dei fondi fixed income che hanno visto triplicare le masse in gestione. Questo fenomeno ha scatenato una gigantesca massa di liquidità alla ricerca di opportunità di investimento in un mondo a tassi zero. “La grande raccolta di denaro dei fondi fixed income ha canalizzato un forte flusso di credito attraverso i fondi d'investimento, i quali hanno sottoscritto bond di ogni natura, alla caccia di qualsiasi cosa offrisse un rendimento positivo. Il meccanismo ha permesso di emettere enormi quantitativi di debito da parte nel settore high yield ed emerging market, di finanziare settori dell'economia che erano stati penalizzati dal collasso del credito dopo la crisi bancaria e di far ripartire il trend speculativo sul credito. È cambiato solo il canale attraverso il quale passare: dalle banche ai fondi”.

Oggi ci troviamo dunque in un contesto estremamente più fragile di prima perché il credito è gestito prevalentemente dal sistema del risparmio gestito tramite i fondi e buona parte di tale credito è fornito dal canale retail e non dal canale istituzionale bancario. “Le cose cambiano radicalmente se il credito è gestito da fondi d'investimento e dai portfolio managers che acquistano bonds con l'ottica di rivenderli. In questo caso, non solo il sistema economico è esposto a un potenziale sell off dei bonds con conseguente aumento significativo dei tassi (e quindi dei costi di rifinanziamento), ma è anche esposto al rischio di un potenziale blocco del credito (credit crunch) perché i fondi d'investimento sono potenzialmente sottoposti a riscatti che bloccano ogni acquisto e che generano di conseguenza riduzione delle posizioni d'investimento in modo obbligato. In questo caso sarà dunque il mercato che deciderà che tassi ci saranno in caso di politiche fiscali espansive e/o modifiche delle aspettative inflazionistiche.

Il paradosso nel quale ci troviamo ora è dato dalla stabilità costruita attorno alle Banche Centrali, garanti di un sistema che sta in piedi solo se i tassi rimangono a zero e che non regge se vogliamo più crescita e più inflazione. Per assurdo dovremmo sperare che tutto rimanga fermo in una perenne stagnazione perché se il mercato crede nella ripresa produce un aumento dei tassi potenzialmente incontrollabile. Nessuno si è probabilmente accorto di questa strutturale modifica che il mercato del credito internazionale ha subito in questi anni.

“Vorrei quindi sottolineare che non si esce dai tassi zero senza pagare il prezzo con pesanti turbolenze sui mercati finanziari: tutti sanno che questa situazione non può durare, ma pochi sono disposti a modificare la propria asset allocation, sperando che i tempi della crescita e dell'inflazione, attesi da tutti, arriveranno tra molto tempo. A mio parere, entro i prossimi 3/6 mesi assisteremo al dibattito politico negli Usa su come attivare stimoli fiscali utili a produrre più crescita, perché se all'Europa e al Giappone può andare bene una crescita tra 0,5% e 1%, all'America non va certo bene una crescita all'1,5%.

Si tenga poi conto che tale modesto risultato avviene in concomitanza con la disoccupazione al 4,9%, non si riesce quindi a capire come mai i "forti" consumi statunitensi non riescono a imprimere una crescita economica di almeno il 3%. Non vedo dunque alternative all'arrivo di politiche fiscali che possano modificare lo scenario attuale e credo sia opportuno prepararsi al ritorno della volatilità”.