Analisi a cura di Richard Flax, Chief investment Officer di Moneyfarm SIM.
Per accedere a questo contenuto
Analisi a cura di Richard Flax, Chief investment Officer di Moneyfarm SIM.
E alla fine si sono aperti i forzieri. La questione spinosa delle banche popolari venete si è conclusa e il conto per le casse dello stato è piuttosto salato. Intesa Sanpaolo (che legittimamente persegue i suoi interessi industriali) ha acquisito la parte “buona”, ovvero epurata da crediti inesigibili, del bilancio di Veneto Banca e di Banca Popolare Veneta per la cifra simbolica di 1 euro. Il Governo ha decretato, in un Consiglio dei Ministri lampo, un contributo di circa 5 miliardi per coadiuvare l’operazione.
L’esborso del tesoro non finisce però qui. Il Governo offrirà (tra le varie misure) garanzie sui crediti con lo scopo di non alterare lo stato patrimoniale di Intesa. L’esborso per il tesoro potrebbe diventare più salato, con la possibilità di impiegare circa 12 miliardi aggiuntivi.
Il governo si occuperà poi della gestione dei crediti deteriorati dei due istituti veneti, che confluiranno in una “bad bank” (l’esperienza passata ci suggerisci che le possibilità di recuperare sono piuttosto esigue). La cifra graverà quindi sui contribuenti italiani, un esborso che si va ad aggiungere a quello recentemente pagato per le crisi di Mps e delle banche popolari dell’Italia centrale.
A pagare saranno anche gli azionisti delle due banche che vedranno il valore delle loro quote azzerate, comprese quelle in possesso del fondo interbancario Atlante. Garantiti saranno invece i correntisti e gli obbligazionisti senior, mentre ancora non è chiara la sorte delle obbligazioni non garantite.
Come si risolve una crisi bancaria?
L’industria bancaria è da sempre considerata un comparto speciale dell’economia per via della sua interconnessione con il sistema economico. Gli istituti di credito sono il nodo nel quale si intrecciano i fili dell’ecosistema economico moderno, tenuto insieme dall’intricato sistema del credito.
Quando una banca fallisce, lo Stato deve quindi tenere in considerazione un gran numero di interessi che necessitano di essere tutelati. C’è l’interesse dei creditori della banca, specialmente i risparmiatori che potrebbero rischiare di vedere intaccati i propri risparmi. C’è l’interesse dei contribuenti, che pagano le tasse e non vorrebbero vedere le loro imposte destinate a salvare una società privata. C’è poi l’interesse dei lavoratori, gli impiegati della banca che potrebbero perdere il posto. Infine c’è l’interesse generale, nell’evitare una crisi sistemica che potrebbe avere costi sociali altissimi (come successe nel 2008, senza ovviamente voler comparare le due situazioni).
Quando si trova ad affrontare una crisi bancaria, la politica dove soppesare tutti questi interessi e agire con determinazione ed equilibrio, trovandosi nella scomoda situazione di dover essere costretta ad accettare, in un senso o nell’altro, un compromesso.
Le opzioni sul tavolo sono principalmente tre:
La prima è quella di nazionalizzare l’istituto, facendosi carico dei debiti in cambio delle azioni, con la possibilità di godere nel futuro dei frutti dell’operazione (ma questa possibilità non è in discussione in questo caso).
La seconda opzione è quella di intervenire con un aiuto pubblico, seguendo la logica che il costo del salvataggio resta comunque inferiore al costo sociale che si verrebbe a determinare se il fallimento della banca detonasse in una crisi capace di strabordare i confini del sistema finanziario (bail out).
La terza via è quella di far sì che se una banca fallisce siano i privati a pagare (gli azionisti e, in secondo ordine, i creditori), lo Stato in questo caso pone dei paletti per tutelare alcune categorie (come i correntisti) e per evitare contagi per il resto del sistema finanziario.
La risoluzione all’italiana
Ora, la legge europea, entrata in vigore due anni fa, prevede che lo Stato possa intervenire per aiutare le banche che entrano in risoluzione solo in via residuale, dopo che a pagare siano prima stati azionisti e creditori (ma anche correntisti con più di €100.000).
L’Italia, negli ultimi due anni, ha però deciso di non applicare questo regolamento, ritenendo opportuno mettere a sostegno del sistema bancario una cifra che alla fine della giostra ammonterà a qualche punto percentuale di Pil. In pratica, con il beneplacito di Bruxelles, si cercano soluzioni alternative tra le pieghe legislative per aggirare la normativa sul bail in.
È opinione diffusa che l’Italia non si sia fatta trovare pronta e abbia sottovalutato ampiamente questa transizione legislativa. Il risultato è che si trovi nella paradossale situazione di non poter applicare le leggi vigenti.
Si potrebbe argomentare che la situazione bancaria italiana si sarebbe dovuta affrontare prima che la lunga crisi portasse alla luce un’incredibile quantità di crediti non esigibili, frutto in molti casi di anni e anni di gestioni familistiche e dilettantistiche di banche, non solo locali, e di condotte illecite o ai limiti dell’illecito. Forse se questo nodo fosse stato affrontato a suo tempo, in parallelo con gli altri Stati europei, adesso la crisi di alcune banche locali non avrebbe assunto questa dimensione sistemica.
D’altra parte il sistema bancario italiano, nella sua parte sana e più capitalizzata, dimostra legittimamente di non avere la volontà strategica di risolvere la crisi in ambito privato (come recentemente accaduto nella crisi lampo del Banco Popular in Spagna) ovvero senza l’ausilio del Governo (ausilio evidentemente disponibile e quindi difficilmente rifiutabile).
Il governo, è bene ricordarlo, non può evitare di utilizzare i soldi dei contribuenti anche in virtù delle tante storie di risparmiatori truffati o indirizzati in scelte di investimento scellerate da parte delle proprie banche di fiducia. Un altro argomento, se mai ce ne fosse bisogno, che sottolinea l’importanza di affidarsi a una consulenza finanziaria indipendente e la necessità di una strategia seria per far fronte all’emergenza dell’educazione finanziaria nel Paese.
Un altro capitolo della crisi bancaria si è chiuso. A pagare questa volta sono stati tutti i contribuenti. Gli indici borsistici italiani, come noto, sono molto esposti verso il settore bancario e dei servizi finanziari. Non sappiamo quanto il settore sia lontano dal fare direttamente i conti con le proprie criticità: ciò che ci sentiamo di consigliare, se volete evitare di pagare anche come investitori, è di mantenere un approccio globale e diversificato.