Brexit e il fallimento della decisione collettiva

Richard Flax, Chief Investment Officer di Moneyfarm
Richard Flax, Chief Investment Officer di Moneyfarm

Contributo a cura di Richard Flax, chief investments officer di Moneyfarm.

L’epopea della Brexit, oltre a marcare un momento cardine della storia britannica ed europea, diventerà sicuramente un caso di scuola per tutti gli studiosi dei processi decisionali: ci troviamo infatti di fronte a un caso paradigmatico di fallimento di questi processi. Il peccato originale, ormai è evidente, fu quello del primo ministro David Cameron, che, probabilmente fiducioso di andare incontro a una facile vittoria, imbrigliò la questione Brexit nello schema binario del referendum: sì o no. La storia è nota: il “sì” prevalse a sorpresa con il 52% dei voti.

La situazione, tuttavia, non è semplice. Come tenere in considerazione l’opinione del 48% della popolazione che si è espressa con un secco “no” su un argomento così importante e decisivo? Evidentemente si tratta di un problema, soprattutto se in questo 48% si trovano la maggioranza netta della popolazione under 40, degli abitanti della capitale, della popolazione scozzese e di quella nordirlandese (due nazioni in cui sono ancora presenti istanze indipendentiste). Inoltre, cosa vuol dire Brexit? I cittadini vogliono veramente la Brexit a tutti i costi, anche a quello di uscire dall’Unione senza nessun accordo, lasciandosi dietro una coda di problematiche economiche, politiche e sociali?

Ecco, a meno di un mese dalla data stabilita per il divorzio, queste domande ancora non hanno avuto una risposta chiara. Alla vigilia dell’ennesimo voto decisivo, vale la pena dunque analizzare il posizionamento dei vari gruppi parlamentari, per capire quale potrebbe essere il risultato finale. La situazione della Brexit assomiglia al celebre paradosso elaborato nel XVIII secolo dal Marchese di Condorcet, un modello logico-matematico che teorizza la possibilità di una rotazione ciclica delle preferenze nei meccanismi decisionali collettivi, ovvero della possibilità di una non transitività dei risultati preferiti dalla maggioranza. Per essere più chiari, per “non transitività” si intende che la maggioranza potrebbe preferire la soluzione A alla soluzione B, la soluzione B alla soluzione C, ma prediligere tuttavia la soluzione C alla soluzione A. Si tratta di una soluzione paradossale che si può porre quando le maggioranze sono formate da gruppo di individui che hanno una graduatoria di preferenze diversa per le varie opzioni. Prendiamo ad esempio il caso Brexit.

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La tabella indica le posizioni delle principali fazioni del Parlamento britannico. Il 12 marzo Theresa May vorrebbe presentare al Parlamento una versione rivisitata dell’accordo con l’Ue, tuttavia è improbabile che riesca a ottenere una qualsiasi concessione da Bruxelles riguardo la questione del confine nordirlandese.

A quel punto i “ribelli” conservatori pro-Brexit (European Research Group), pur di non appoggiare l’accordo corrente, considerato un tradimento della causa, potrebbero far saltare il banco - favorendo l’opzione di una Brexit senza accordo, totalmente invisa ai laburisti e ai conservatori moderati. I conservatori fedeli alla May potrebbero allora convergere con i laburisti verso un rinvio della Brexit, per scongiurare appunto l’ipotesi di una Brexit senza accordo. La speranza di Theresa May è che i ribelli conservatori (forse unitamente ai laburisti pro-Brexit, che difficilmente potrebbero giustificare al loro elettorato una marcia indietro), pur di evitare un rinvio della Brexit, decidano di appoggiare il suo accordo. Come si può notare, immaginando vari scenari all’interno di questo modello, ci troviamo in una situazione di preferenze assolutamente non transitiva: i laburisti non vogliono assolutamente l’uscita senza accordo e sarebbero disposti a rinunciare alla Brexit pur di non vederla in atto, così i conservatori pro-Brexit vorrebbero evitare a tutti i costi un secondo referendum e pur di non vedere la Brexit tradita potrebbero convergere verso posizioni più moderate (oggi giudicate inammissibili). E così via.

Come uscire da questo stallo che, su un piano strettamente logico/teorico, porterebbe all’impossibilità permanente di giungere a una decisione? Da manuale, la risposta è che si supera l'impasse attraverso il controllo dell’agenda, ovvero dell’ordine in cui le varie opzioni sono messe al voto: in una situazione di preferenze non transitive, votare un’opzione prima di un’altra può far tendere la decisione finale da una parte o dall’altra. Proprio una gestione tattica dell’agenda è ciò che Theresa May sta provando a mettere in pratica da diverse settimane, con scarso successo perché l’Unione Europea non sembra voler fare nessuna concessione all'opzione preferita dalla sua corrente - ovvero una Brexit nella versione attualmente in discussione, con alcune concessioni sulla questione del confine nordirlandese.

Allora cosa succederà? A meno di clamorose sorprese, May farà votare il suo accordo, che verrà con ogni probabilità sconfitto dal Parlamento. Dopo di che le due opzioni sul tavolo sono un rinvio della Brexit, mozione su cui potrebbero convergere le opposizioni, o la Brexit senza accordo che sembra la proposta più invisa non solo ai laburisti, ma anche alla maggioranza dei conservatori moderati. Se non ci saranno sorprese, dunque, sembra che una richiesta di rinvio della Brexit sia il punto di convergenza: ma non è escluso che Theresa May, che detiene in questo momento il controllo dell’agenda, possa prendere delle decisioni tattiche dell’ultima ora per provare a influenzare il risultato finale. Dopotutto non sarebbe la prima volta che, in questa piccola epopea democratica, qualcuno provi a far saltare il banco con un colpo di coda dell’ultimo minuto.