Dall’inizio dell’anno abbiamo visto affermarsi sulle valute alcuni trend molto forti, come il deprezzamento della sterlina e del dollaro e l’apprezzamento dell’euro e dello yen. A stupire molto gli analisti è stata la direzione di questi movimenti, contraria a quanto previsto dalla teoria economica.
In teoria, un abbassamento dei tassi d’interesse seguito da aspettative sui tassi futuri sempre più basse (appiattimento della curva dai tassi d’interesse) dovrebbe essere seguito da rendimenti più bassi per una determinata valuta, in questo mondo spingendo gli investitori a preferire altre valute, e dato l’abbassamento della domanda, la valuta coi rendimenti più bassi dovrebbe deprezzarsi.
Finora, nonostante tassi negativi in Giappone e Germania (e nell’Eurozona nel suo complesso), lo yen e l’euro si sono apprezzati. Al contrario, economie che dovrebbero essere più solide e in crescita, come il Giappone e gli Stati Uniti, dove i tassi d’interesse sono alti e la politica monetaria è meno (esplicitamente) accomodante, hanno visto la propria valuta deprezzarsi. Da inizio anno ad oggi, il dollaro statunitense ha perso circa il 5% sia contro le principali valute sviluppate sia contro le valute emergenti. La sterlina ha fatto ancora peggio, perdendo il 6% contro le valute più liquide e il 7.5% contro le valute emergenti. Nello stesso periodo lo yen è salito del 7%, seguito dall’euro che finora ha guadagnato il 2.5%. Il posizionamento degli investitori ha giocato un ruolo importante in questi movimenti apparentemente contro intuitivi.
Per quanto riguarda la sterlina, i timori circa la possibilità di Brexit hanno causato un aumento del posizionamento 'corto' sulla valuta. La volatilità implicita prezzata dal mercato delle opzioni è più alta nelle scadenze brevi (2 - 3 mesi), segnalando un incremento della domanda per la copertura dal rischio di cambio per le scadenze vicine al referendum. Così, nonostante il contesto macroeconomico più favorevole a una sterlina forte, non è difficile vedere perché i mercati si sono posizionati in un determinato modo.
Passando al dollaro USA, la recente debolezza ha sorpreso quanto si aspettavano la parità tra euro e valuta americana. Una ragione per il deprezzamento del dollaro può essere che il tasso d’interesse reale statunitense (misurato come differenza tra tassi d’interesse nominali e l’inflazione prezzata dai relativi bond indicizzati all’inflazione) si è deteriorato negli ultimi mesi. Tassi sempre più bassi e aspettative d’inflazione più alte hanno compresso il tasso reale, che è sceso in termini assoluti e relativi se paragonato con le altre maggiori economie. Ad ora è difficile pensare a una Fed che possa invertire la rotta e, solo fattori di rischio esogeni (come movimenti del petrolio o Brexit), potrebbero portare a un rafforzamento del petrolio.
Alla base del rafforzamento dello yen troviamo le stesse dinamiche, ma capovolte. I tassi nominali sono sì diminuiti anche in Giappone, ma le aspettative di inflazione sono crollate, portando il tasso d’interesse reale a rafforzarsi sia contro il dollaro USA che contro l’euro, anche se i tassi nominali sono scesi in territorio negativo. Per invertire la tendenza, la Bank of Japan ha bisogno o di aspettative d’inflazione in crescita o di una Fed più hawkish.
Lasciandosi alle spalle il mondo delle valute sviluppate, molte soprese sono arrivate pure dalle valute emergenti, che dopo aver perso più del 7% nel 2015, sono ora largamente in positivo dall’inizio dell’anno. Dal punto di vista dei fondamentali, le preoccupazioni sul mondo emergente rimangono. Una Fed in attesa combinata con politiche espansive da parte della Banca Centrale Europea e della Bank of Japan hanno favorito la propensione al rischio degli investitori. Il dollaro debole ha giocato un ruolo importante nel rimandare ancora la fase di deleverage dell’economia, mantenendo le condizioni di credito nel mondo emergente relativamente accomodanti e contribuendo a dare un floor al prezzo del petrolio (che è stato il maggior driver di mercato del 2016).
Il contesto quindi è tuttavia limitato ad una visione tattica. La convinzione degli investitori su questa asset class non è ancora molto forte, e finora si è trattato più di approfittare del contesto favorevole che a uno spostamento massiccio a favore dei mercati emergenti. I recenti movimenti valutari hanno sottolineato l’importanza di una gestione nel breve/medio termine che tenga conto anche dell’esposizioni in valuta estera. Soprattutto per i portafogli obbligazionari, con i rendimenti molto bassi, i movimenti sul mercato dei cambi possono cancellare un anno di performance in poco tempo. La diversificazione tra le asset class, si deve tradurre anche in una diversificazione sulle valute.