Analisi cura di Giancarlo Sandrin, CFA, presidente CFA Society Italy.
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Analisi a cura di Giancarlo Sandrin, CFA, presidente CFA Society Italy.
Negli ultimi anni la ricerca del cosiddetto “alpha” e l’attenzione ai costi ha portato l’industria a cercare da un lato nuove vie per ottenere un’extra performance rispetto agli indici standard, e dall’altro ha cercato di capire meglio come i gestori attivi gestiscono il proprio portafoglio. Ciò ha portato accademici ed investment manager a produrre un’enorme quantità di ricerca (e di prodotti) che fossero alternativi ai classici indici a capitalizzazione, da qui la nascita degli “Smart Beta”.
Per la precisione il termine Smart Beta fu coniato da Tower Watson intorno al 2009 per descrivere tutte quelle strategie che non sottostavano al criterio di capitalizzazione, ad esempio equal weighting, foundamental indexing, low volatility,…. Nonostante il proliferare di strategie non è possibile generalizzarle, considerandole un tutt’uno. Prendiamo il caso del foundamental indexing, il più conosciuto è il RAFI. Molti ritengono che questa strategia Smart Beta sia sostanzialmente un value investing. In realtà se prendiamo oggi i rendimenti annualizzati a 3 anni e 5 anni [1]del RAFI Russell US Index (rispettivamente 10,10% e 9,42% annui), questi sono nettamente superiori al Russell 3000® Value Index (rispettivamente 8,28% e 7,92% annui). Uno studio di Research Affilitates del 2017[2]stima inoltre che, tra il 1974 e il 2016, l’indice RAFI US abbia portato un over performance, rispetto al Russell 3000®, dell’1,8% su base annua. Di questo però il 74% proveniva da un’esposizione fattoriale, e il contributo in termini assoluti tra i fattori della parte value era di poco superiore al 50%.
Sebbene quindi le strategie Smart Beta non siano necessariamente strategie di tipo fattoriale, queste ultime, grazie alla maggior consistenza nei risultati e avvalorate da numerosi studi accademici e non, hanno preso il maggior riconoscimento e peso nell’industria. Queste tipologie d’investimento erano studiate già dagli anni ‘70 e in particolare furono portate alla ribalta grazie a French e Fama[3], che negli anni ’90 presentarono il modello a tre fattori. I due premi Nobel posero le basi razionali sull’esistenza di fattori diversi dal beta di mercato che spiegassero in particolare i rendimenti dei titoli azionari americani. Oltre al beta descrissero il fattore size ed il fattore value (da loro definito come Price to Book). Loro stessi aggiustarono nel 2015 il loro modello, aggiungendo due ulteriori fattori, profitability (azioni con una più elevata operating profitability performano mediamente meglio) e investment (azioni di società con alti tassi di crescita degli asset tendono ad avere rendimenti minori).
Le strategie fattoriali che oggi sono presenti sul mercato si basano spesso su queste teorie, ma è bene sottolineare il termine “si basano”, in quanto definizioni come value (in particolare) e size possono variare da strategia a strategia e in particolar modo il sovrappeso che si vuole dare alle azioni considerate value piuttosto che size, modifica il profilo dell’indice. Nella teoria finanziaria esistono poi centinaia di fattori, anche se i più utilizzati sono solo alcuni, oggi sono sei le strategie maggiormente usate: value, low size, low volatility, high yield, quality e momentum. Per ciascuna di queste esistono un’infinità di sfumature in termini di implementazione pratica.
Con il crescente utilizzo dei fattori, l’industria si è iniziata a domandare come poter utilizzare questi elementi, e in particolare quale fosse la loro importanza all’interno della gestione attiva. Ad oggi una delle style analysis più comuni per valutare i fondi comuni, si basa sulla Style Box di Morningstar®, che prevede una distinzione tra value/growth/blend e tra large/small/blend. L’imposizione dei nuovi fattori, la maggior disponibilità di dati e la maggior potenza di calcolo hanno però creato un interesse per andare ancora più a fondo su come i gestori (volontariamente o involontariamente) usassero degli stili di gestione per ottenere una sovraperformance.
Su quest’ultimo punto vale la pena riportare uno studio[4]effettuato recentemente, nel 2017, che avvalora le tesi legate all’importanza del factor tilting tra i gestori attivi. In questa analisi, fatta su di un campione di 1.267 fondi attivi US Equity tra il 2010 e il 2015, con asset totali di 3,27 trillioni di dolari, è emerso che i gestori tendono a sovrappesare, nell’ordine, i fattori momentum, value e ben distaccato il fattore quality. Questo sovrappeso porta ad un effetto positivo di 0,51%. Il timing dei fattori aggiunge un ulteriore 0,2%, mentre la security selection porta un effetto negativo di -1,60%.
A questo punto arriviamo al tema conclusivo, la factor rotation. Abbiamo visto che i fattori nel lungo termine aiutano in molti casi i gestori ad ottenere una maggior performance rispetto agli indici classici. Allo stesso tempo, nel breve termine, i fattori si comportano in modo molto differente, sottoperformando o sovraperformando gli indici standard, questo perché ciascun fattore risponde a determinate componenti macroeconomiche. Ad esempio il fattore minimum volatility risponde bene in fasi di stress dei mercati azionari, le strategie value nella fasi di crescita iniziale del business cycle (ad esempio aprile 2003-ottobre 2007), quelle momentum nelle fasi di mercato in forte trend (esempio maggio 2011-maggio 2012).
Il timing dei fattori è però un’attività piuttosto complessa. Ad esempio, comprendere quali e con quale peso siano essi presenti nelle singole asset class, è un esercizio particolarmente complesso. Ricordiamo che non solo l’azionario presenta un’esposizione ai fattori, ma anche l’obbligazionario è influenzato dai macrofattori.
Ad ogni modo la stessa attività di asset allocation presenta difficoltà molto simili, un’allocazione fattoriale è pertanto possibile e potenzialmente benefica per il portafoglio, tenendo conto però di alcuni punti:
- È necessario partire da un’allocazione fattoriale strategica che sia in linea con i propri obbiettivi (ad esempio se l’obiettivo è ridurre la volatilità, un sovrappeso sul fattore minimum volatility potrà essere particolarmente utile).
- La diversificazione fattoriale (come per le singole asset class) è fondamentale. È quindi più utile creare un portafoglio ben diversificato effettuando dei “tilt” strategici e tattici senza concentrarsi eccessivamente su uno o due fattori, ne effettuare turnover eccessivi.
- Nell’allocazione tattica tenere conto del ciclo economico che abbiamo innanzi per scegliere il fattore, ma considerare nel contempo anche le valutazioni ed il trend del singolo fattore. Ci sono momenti di mercato in cui i titoli che rappresentano quel fattore potrebbero essere “troppo cari” oppure “particolarmente convenienti”.
[1]Al 26 ottobre 2018.
[2]May 2017. Arnott, Clements, and Kalesnik. Why Factor Tilts Are Not Smart “Smart Beta”.
[3]Common risk factors in the returns on stocks and bonds (Journal of Financial Economics, 1993).
[4]Estimating Time-Varying Factor Exposure (Financial Analyst Journal, vol.73 no.4 2017).