Il dodicesimo cammello

Carlo-Benetti
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Commento a cura di Carlo Benetti, head of Market Research and Business Innovation di GAM (Italia) SGR S.p.A.

L’apologo del dodicesimo cammello racconta che un diverso modello di sviluppo è possibile, che una economia “a servizio dei bisogni e dei diritti” potrebbe essere la strada maestra per il recupero di una crescita sostenibile. Un ricco cammelliere così dispose della sua eredità: la metà dei suoi 11 cammelli sarebbe andata al figlio maggiore, un quarto sarebbe toccato al secondo figlio e un sesto al terzo. Nel dividere l’eredità i fratelli però si trovarono subito a litigare, era impossibile rispettare la volontà del padre e attribuire ad uno la metà, ad uno un quarto e al terzo fratello un sesto degli undici cammelli. Passava di lì un altro cammelliere che, messo a parte del problema, decise di fare dono ai tre fratelli di un cammello. Con dodici cammelli i tre riuscirono ad accordarsi secondo le volontà del padre: sei cammelli al figlio maggiore (la metà), tre cammelli al secondo (un quarto), due cammelli al più giovane (un sesto). Ma la somma dei cammelli divisi, 6 + 3 +2, da come risultato 11! I tre fratelli litigiosi si erano spartiti in giustizia ed equità gli 11 cammelli del padre e quindi restituirono al cammelliere il cammello regalato, riconoscenti per il dono che aveva riportato tra loro l’armonia. “Passò di lì un altro cammelliere e, conosciuto il problema, fece loro dono di un cammello”.

 Questo degli undici cammelli è l’apologo utilizzato dall’economista Stefano Zamagni per introdurre un ragionamento sull’economia del dono o, meglio, sull’economia “a servizio dei bisogni e dei diritti”. Il regalo del dodicesimo cammello, che aiuta i tre fratelli a risolvere la disputa, è paradigmatico di come la leva etica aiuti a ricomporre ciò che sembra non componibile. Abbandoniamo le atmosfere fiabesche della storiella araba e torniamo al nostro tempo, precisamente a New York, al numero 745 della Settima Strada. E’ un indirizzo che probabilmente dice poco a molti, ma sapendo che a quell’indirizzo si consumò uno storico fallimento il 15 settembre 2008, è immediato il collegamento all’episodio che segnò il passaggio tra un “prima” e un “dopo”. Il crollo di Lehman Brothers diede avvio a una crisi sistemica, fece deflagrare un modello di crescita fondato sul debito e non più sostenibile. L’enorme massa di debito globale esercita ancora adesso un freno alla ripartenza e la struttura demografica delle economie avanzate sconsiglia la formazione di nuovo debito.

Un nuovo modello di sviluppo non è stato ancora trovato, governi e banchieri centrali stanno profondendo sforzi enormi per restituire sostenibilità al sistema economico. Le misure straordinarie annunciate dal governo giapponese i primi giorni di agosto si iscrivono in questo capitolo, ma già rischiano di scontare la temporaneità che è propria degli stimoli fiscali. Nessuno dubita più che l’economia sia scienza sociale e non deterministica: la psicologia cognitiva, la finanza comportamentale hanno definitivamente picconato l’homo oeconomicus, quello, per intenderci, le cui scelte sono dettate esclusivamente dal soddisfacimento di bisogni e dall’interesse personale. In realtà i nostri comportamenti sono condizionati anche dall’etica, dalla generosità, dall’altruismo. Negli anni ‘70 il sociologo inglese Richard Titmuss dimostrò che la ricompensa in denaro per le donazioni di sangue “diminuiva il numero delle donazioni e riduceva la qualità del sangue donato” (Zamagni 2006). Esemplare la storia di una scuola materna di Haifa che introdusse il deterrente di multe in denaro per scoraggiare i genitori a presentarsi in ritardo al termine delle attività. La conseguenza di quella decisione fu che i ritardi anziché diminuire aumentarono. La monetizzazione del ritardo aveva rimosso l’obbligo morale, il deterrente esercitato dalla riprovazione delle maestre: “visto che pago, quando arrivo arrivo”. Perché è proprio dell’animo umano provare disagio ad essere ricompensati con denaro per gesti che si farebbero in ogni caso. Nella donazione di sangue, ad esempio, non è in gioco l’interesse economico ma, semmai, il piacere della considerazione sociale e il consolidamento dell’autostima per un comportamento buono e giusto “che ci fa stare bene”. Lo annotava anche Adam Smith: “quale maggiore felicità di essere amati e sapere di meritare di essere amati”.

Nel 2009 in molti sostenevano che non si poteva sprecare l’occasione della crisi. La crisi, in senso tecnico, è stata risolta ma è illusorio pensare di ripartire dallo stesso paradigma, con le medesime regole. La sfida è l’elaborazione di un diverso modello di crescita, sostenibile, inclusivo, equo. Sia l’OECD che il Fondo Monetario da tempo stanno mettendo in relazione le disuguaglianze crescenti con la difficoltà di riprendere un virtuoso sentiero di crescita. Le differenze tra ricchi e poveri non sono mai state così elevate dal secondo dopoguerra. Il 10% dei più fortunati della popolazione dei paesi OECD ha un reddito dieci volte superiore al 10% dei meno fortunati. Negli anni ’80 questo rapporto era di 7 a 1. I salari reali più bassi sono aumentati più lentamente negli anni di crescita economica, sono precipitati negli anni del rallentamento. E’ un fenomeno che ha implicazioni anche politiche, perché tra i più colpiti dalla crisi crescono il rancore e la diffidenza, lì si forma il consenso a Brexit in Gran Bretagna, a Trump negli Stati Uniti, ai nazionalismi europei avversi alla moneta unica e all’Unione Europea.

Ma il punto interessante è la relazione osservata dagli economisti dell’OECD (e del Fondo Monetario) tra crescita delle disuguaglianze e rallentamento dell’attività economica. Tra il 1985 e il 2005 l’aumento delle disuguaglianze in 19 paesi ha coinciso con una perdita di 4,7% di crescita cumulata. L’aumento della disuguaglianza misurato dall’Indice di Gini nei Paesi OCSE tra gli anni ’80 e il 2012. Il coefficiente di Gini rileva le disuguaglianze economiche: 0 indica una comunità in cui la ricchezza è perfettamente distribuita tra tutti i suoi membri, il valore 1 indica invece la concentrazione dell’intera ricchezza in una sola persona. Nei paesi OECD il valore medio del coefficiente di Gini è passato da 0,29 negli anni ’80 a 0,33 nel 2014. La diminuzione delle disuguaglianze, ovvero l’incremento dei redditi reali della classe media (quella che sostiene il grosso dei consumi) sembra dunque un elemento cruciale per la ripresa economica, un po’ come accadde nei “gloriosi trenta”, i tre decenni del secondo dopoguerra in cui l’allargamento della ricchezza alla classe media favorì l’espansione dei consumi e un impetuoso sviluppo economico. Facile a dirsi, ma a farsi? I livelli di tassazione media sono ai livelli massimi consentiti dal consenso elettorale pressoché in tutte le economie avanzate. La distribuzione della ricchezza attraverso il tradizionale strumento della fiscalità è impraticabile. L’aumento dei redditi reali della classe media, quella più colpita dagli strascichi della crisi, deve essere perseguito con altre soluzioni.

Branco (con la “c”, non la “k” del Branko degli oroscopi) Milanovic è uno statistico economico specialista di sviluppo e disuguaglianze ed ha formulato qualche suggerimento:

• incrementare alla classe media le opportunità di accesso al finanziamento per iniziative imprenditoriali, accompagnarle con adeguate misure normative, favorire l’accesso ai migliori livelli di istruzione anche ai ragazzi meno abbienti per far ripartire la mobilità sociale;

• approfittare dei bassi costi di finanziamento per investire in infrastrutture: telecomunicazioni, impianti di energia rinnovabile, smart grid. Nelle economie emergenti, dove c’è surplus di risparmio, investire nelle infrastrutture tradizionali di ferrovie, strade, porti e aeroporti. E nell’istruzione superiore;

• per Milanovic anche l’immigrazione costituisce un’opportunità di sviluppo come è stata nel XIX e XX secolo per l’America Latina e gli Stati Uniti. Certo, rispetto ad allora la questione presenta aspetti inediti ma è una sfida che la politica di Paesi o aree dove l’età media è alta deve raccogliere e vincere. Il nuovo modello di crescita, ancora tutto da inventare, non potrà prescindere da un approccio olistico che tenga conto della teoria economica come della sociologia, della morale e della politica. Perché non si può ragionare sull’homo oeconomicus senza tenere conto che esso convive con l’homo ethicus, l’homo liberalis, l’homo socialis …

Parlare di nuovo modello di sviluppo non può limitarsi ai soli punti di PIL e utili societari: la crescita coinvolge il benessere delle persone e delle comunità, le loro speranze, il loro futuro. La sola grammatica economica non è sufficiente, proprio come non è stata sufficiente a dirimere la lite tra i tre figli del cammelliere. In quel caso fu un gesto di gratuità, il dono del dodicesimo cammello, a riportare armonia tra i fratelli e consentire una spartizione equa. La storiella mette in evidenza la forza della gratuità e delle relazioni: anche il donatore del dodicesimo cammello si allontana un po’ più ricco perché porta con se’ la gratitudine dei tre giovani, il piacere di aver fatto qualcosa di bello e di giusto. E’ un modo diverso di pensare all’economia o, forse, un modo antico, che recupera il senso etimologico della parola, “oikonomia” amministrazione della cosa domestica. La parola “oikòs”, in greco, non indica la casa in senso fisico, ma la comunità familiare che la abita e la rende viva. Il ragionamento sulla crescita dovrebbe diventare una riflessione anche sul dodicesimo cammello, il dono che recupera l’armonia e favorisce l’equità.

Qualche suggerimento di lettura per coloro che volessero saperne di più:

• Disuguaglianza, di Anthony B. Atkinson, Raffaello Cortina Editore 2015 • Global Inequality, a New Approach for the Age of Globalization, di Branco Milanovic, Harvard University Press, 2016

• La realtà è più forte dell’idea, di Sandro Calvani, AVE 2014

• Causes and Consequences of Income Inequality: a Global Perspective International Monetary Fund June 2015