Nella composizione del nuovo Parlamento UE i Verdi avranno solo 53 eurodeputati. Una “inversione a U” sul Green Deal appare improbabile, ma si assisterà a un rallentamento delle politiche ambientali e a un focus sulla semplificazione normativa. Contributo a cura di Riccardo Valeri, Kairos.
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CONTRIBUTO a cura di Riccardo Valeri, portfolio manager, Kairos Partners SGR.
Tra gli sconfitti delle elezioni europee di inizio giugno scorso possiamo sicuramente annoverare il partito dei Verdi. Per i prossimi cinque anni, infatti, i partiti ecologisti dei 27 Paesi UE potranno contare solo su 53 eurodeputati, contro i 71 della precedente legislatura. Le cause di questo risultato possono essere attribuite alle varie politiche ambientali europee, spesso considerate dall’opinione pubblica come troppo rigide, inflattive e con target attuativi troppo ravvicinati nel tempo.

Le politiche più controverse
Tra le politiche più controverse ed esposte a diverse resistenze citiamo:
- le normative agricole e sull'uso dei pesticidi;
- le direttive sugli edifici a zero emissioni e sulle pompe di calore;
- le regolamentazioni circa lo sviluppo delle energie rinnovabili (in contrasto a forme più tradizionali come gas e nucleare), esasperate anche dal concetto di “indipendenza energetica”, emerso con forza dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina. Questo concetto è oggi oggetto di dibattito, tanto che da recenti sondaggi è emerso che i cittadini europei preferirebbero ridurre i costi delle bollette piuttosto che le emissioni di gas serra.
Negli ultimi cinque anni della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, i Verdi sono rimasti fuori dalla maggioranza, ma hanno comunque influenzato l'azione politica dell'esecutivo UE. Su molti provvedimenti, a partire dal Green Deal, gli eurodeputati ecologisti hanno giocato un ruolo di primo piano e hanno spesso votato insieme a Popolari, Socialisti e Liberali. L’esito dei negoziati che prenderanno il via in questi giorni determinerà non solo la composizione della prossima maggioranza al Parlamento europeo ma anche il futuro del Green Deal stesso.
Nell'attuale scena politica, se da un lato i partiti Socialisti e Liberali hanno fieramente rivendicato le politiche green degli ultimi cinque anni e si sono impegnati a continuare lungo la strada tracciata, dall'altro lato, negli ultimi mesi di campagna elettorale, i Popolari hanno mostrato segnali di insofferenza verso alcuni provvedimenti, lasciando intendere che la prossima legislatura potrebbe adottare un approccio diverso nei confronti delle politiche per il clima.
Focus sulla semplificazione normativa
Nonostante ciò, una totale inversione a U sul Green Deal sembra improbabile. Più probabile invece è un rallentamento delle nuove politiche ambientali e un focus sulla semplificazione normativa, con incertezze sull'Agenda Climatica post 2030. C'è consenso tra i principali partiti sul fatto che le norme debbano essere semplificate per preservare la competitività della regione e che l'UE dovrebbe concentrarsi sull'attuazione efficace delle norme esistenti piuttosto che crearne di nuove. Di conseguenza, il ritmo delle regolamentazioni verdi è previsto essere inferiore e molte proposte legislative potrebbero non essere finalizzate.
Il futuro "Verde" d’Europa sembra delineato almeno fino al 2030, ma ci saranno molte discussioni politiche riguardo al target climatico 2040. L'ambizione della proposta attuale, che prevede una riduzione del 90% delle emissioni rispetto al 1990, potrebbe essere soggetta a revisioni e riduzioni, con possibili impatti sulla progettazione del sistema di scambio delle quote di emissioni dell'UE dopo il 2030.
Il fronte regolamentare
Infine, un commento sul lato regolamentare. Le autorità di vigilanza europee hanno recentemente pubblicato le loro relazioni finali sul greenwashing nel settore finanziario e i dati mostrano chiaramente un aumento di questo fenomeno (+23% nel 2023 rispetto al 2022), ma le autorità nazionali garanti della concorrenza stanno già rispondendo con misure appropriate, intensificando i controlli con maggiore frequenza e dettaglio.
Inoltre, sono state pubblicate le nuove linee guida dell'ESMA che stabiliscono nuovi requisiti di portafoglio per i fondi attivi e gli ETF che desiderano utilizzare nell'intestazione l'etichetta ESG (o simili). Queste regole sono state pensate non solo per garantire maggiore trasparenza, ma anche per contrastare il fenomeno del greenwashing. Di conseguenza, un prodotto che vuole associarsi ai temi della sostenibilità deve ora investire almeno l'80% in asset ESG e rispettare le esclusioni definite dalla normativa dell'UE per i Benchmark Allineati a Parigi (PAB) e i Benchmark di Transizione Climatica (CTB). Le nuove disposizioni entreranno in vigore tre mesi dopo la pubblicazione delle traduzioni delle linee guida. Per i veicoli esistenti, è previsto un periodo transitorio di sei mesi per adeguarsi o cambiare nome.
Secondo una stima preliminare di Morningstar, circa due terzi dei prodotti ESG potrebbero essere rinominati o dovranno disinvestire circa 40 miliardi di dollari nei settori non conformi alla normativa. Tra i settori più colpiti dai potenziali disinvestimenti, il primo è quello dell'energia (40%), seguito dall'industria (26%) e dai materiali di base (12%).
