Il viaggio non soltanto allarga la mente, le dà forma*

Ebbi la fortuna di cominciare a viaggiare - con la fantasia - già alle elementari, grazie alle cartoline che mio padre comprava durante i viaggi di lavoro. Oltre ai monumenti principali, sceglieva sempre cartoline sugli abitanti, o dei maggiori musei: gli zoccoli olandesi, la Pipe di Magritte, la Tour Eiffel, le treccine dei capelli delle donne dello Zaire, solo per citarne alcuni. Erano spaccati di civiltà che mi affascinarono e che mi portarono nel corso degli anni a scegliere di continuare gli studi all’estero.

A metà degli anni Ottanta, grazie ad una borsa di studio, mi trasferii nel Sud-est asiatico. Quale studente, con pochi soldi, ma tanto tempo, affinai l’arte del viaggio: spostamenti da Singapore a Bangkok in treni di terza categoria, in mezzo ai polli, oppure in bus strapieni su strade impervie a Sumatra. Ma ciò mi diede la possibilità di scoprire luoghi meravigliosi dove il turismo di massa non era ancora arrivato (come Phi Phi Island in Thailandia). 

Il senso del viaggiare

Il primo impatto culturale con l’Asia a 17 anni non fu semplice: riso fritto a colazione non faceva parte delle mie abitudini. E tanto meno sputare o mangiare con le mani. E appresi presto che il senso di 'pulizia' era qualcosa di molto relativo: se per i primi tre mesi osavo solo bere con la cannuccia in uno dei tanti ristorantini di strada, dopo sei mesi, mangiavo allegramente la cucina locale in uno dei tanti piatti sciacquati in una bacinella, con dell’acqua riciclata. E così imparai una lezione importante: prima di giudicare, dovevo capire il perché di quelle abitudini e la storia che stava dietro. 

Compresi che “l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere occhi nuovi” (M. Proust). Mi resi conto, inoltre, che per viaggiare non bisognava andare lontano. Bastava avere una mente aperta.

Con il tempo, i Paesi visitati si moltiplicarono e i viaggi diventarono un po’ più comodi. Mi appassionai di cucina, di storia e fotografia e ogni viaggio, da allora, è stato una continua ricerca etnografica per capire e apprezzare i luoghi che visitavo. Con l’arrivo dei figli il modo di viaggiare è cambiato, dovendo rivedere le priorità o avvicinare la realtà da un’angolatura diversa. Ma la curiosità di calarmi il più possibile in ciò che incontravo, persino durante gli intensi viaggi di lavoro, non mi ha lasciato più. Questa è per me “la poesia del viaggio”, come direbbe Tiziano Terzani, un autore che amo molto.

* Bruce Chatwin