L’Europa a un bivio

Giordano_Lombardo
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A pochi giorni dal voto sulla Brexit, che ha colto quasi tutti - noi inclusi - di sorpresa, crediamo che due siano le domande veramente cruciali per gli investitori: 1) riusciranno le Banche Centrali nel loro intento di stabilizzare la violenta reazione negativa dei mercati nel breve termine? E inoltre 2) cosa accadrà al processo di integrazione e all’Unione Europea (UE), così come la conosciamo oggi, nel medio-lungo termine? Non vi è dubbio che il voto apra un nuovo periodo di incertezza per il futuro dell’Unione Europea nel suo disegno originale, ma in questo momento è estremamente difficile fare previsioni sul possibile percorso che i leader europei sceglieranno di intraprendere per riparare i danni causati all’UE (ad esempio si potrebbe diffondere l’idea che la partecipazione al progetto di integrazione possa essere reversibile). Veniamo alla prima domanda sul ruolo ed efficacia delle banche centrali. Dopo i primi due o tre i giorni, la volatilità sui mercati si è un po’ attenuata, ma non è certo il caso di cantar vittoria. Due anni (almeno) di negoziati tra Gran Bretagna e Europa per stabilire i termini di un divorzio “non consensuale” sono un tempo lunghissimo per i mercati finanziari. Mercati che saranno alle prese con un aumento delle probabilità di recessione non solo in UK, ma anche nell’Unione, data l’incertezza circa le relazioni commerciali tra Gran Bretagna e Europa, che potrebbe influire sugli aspettative degli operatori, deprimere gli investimenti e ridurre la fiducia dei consumatori.

La domanda è: ci troviamo nuovamente di fronte ad un “caso Lehman”? Noi pensiamo di no, per una semplice ragione: la leva finanziaria. Fino al 2008 una massiccia quantità di debito si era accumulata nel settore privato, nella convinzione (rivelatasi poi falsa) che il rischio fosse parcellizzato su una miriade di prodotti strutturati. Il fallimento di Lehman ha determinato un effetto domino su quelle posizioni, che ha portato a un blocco improvviso del sistema finanziario globale. Nessun meccanismo di questo genere si è instaurato in questi anni con riferimento agli asset finanziari europei, mentre nel frattempo la regolamentazione macro prudenziale ha accresciuto la solidità degli operatori, soprattutto bancari, riducendone la leva. Se un rischio c’è risiede semmai nella crescita stentata ed anemica che ha caratterizzato finora l’economia globale, e l’Eurozona in particolare, che non è degenerata in una vera e propria depressione solo per l’azione decisa delle banche centrali con le loro politiche monetarie “non convenzionali” (quantitative easing e tassi di interesse negativi).

Quello che ci dobbiamo domandare è quindi se i mercati finanziari – che oggi dimostrano una forte avversione al rischio – continueranno ad avere il sostegno delle banche centrali, e se questo manterrà la sua efficacia. Pensiamo che le Banche Centrali che sono impegnate in attività di Quantitative Easing, come la BCE, potrebbero decidere di variare i loro programmi di acquisto, mentre le altre che hanno già iniziato un percorso di normalizzazione della politica monetaria, come la Fed, potrebbero decidere di procrastinare i prossimi aumenti dei tassi. In altri termini, le azioni finalizzate a sostenere la stabilità dei mercati finanziari con iniezioni massicce di liquidità e politiche di tassi zero o negativi potrebbero protrarsi nel tempo. Tuttavia, i mercati potrebbero nutrire dei dubbi sull’efficacia di ulteriori interventi di politica monetaria, mettendo in discussione la credibilità delle Banche Centrali. Nel frattempo anche l’impasse politico potrebbe compromettere la definizione e la conseguente applicazione di politiche fiscali efficaci e dei tanto attesi incentivi agli investimenti privati nell’economia reale.

Vale la pena notare che le politiche economiche implementate dopo la Grande Crisi, benché assolutamente necessarie per preservare la solidità del sistema finanziario, alla lunga hanno comunque contribuito a generare distorsioni sulla liquidità e sulle valutazioni in particolare dei titoli governativi e del credito (si calcola che oggi circa 11 trilioni di dollari di obbligazioni nel mondo siano a rendimenti negativi). Questi interventi non potevano certo curare, anzi in un certo senso li hanno pure accentuati, fenomeni strutturali, come la crescita della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito e la bassa crescita della produttività, che sono alla base dei deludenti progressi fatti in questi anni in termini di crescita potenziale e di occupazione. Tutti trend che ormai permangono da diversi anni e che cominciano a generare l’insofferenza degli elettori non soltanto nel Regno Unito, ma anche nel resto dell’Europa e degli Stati Uniti. Alla luce di queste considerazioni il voto in favore della Brexit dovrebbe essere interpretato come un voto contro l’esclusione (per esempio dai benefici della globalizzazione e della “finanziarizzazione”) piuttosto che contro l’Europa.

Partendo da questa prospettiva, la seconda domanda, relativa alle prospettive di lungo termine del progetto di integrazione europea, non è riferita al meccanismo istituzionale di permanenza “dentro” o “fuori” dall’Europa. E’ piuttosto una questione esistenziale circa i benefici economici e di welfare per i cittadini europei derivanti da un’Europa più o meno unita(a seconda dei punti di vista). Questa è la vera domanda a cui le autorità politiche ed economiche ed i cittadini europei dovranno trovare una risposta nei prossimi anni, ripensando in modo radicale la ragion d’essere dell’integrazione europea e le conseguenti politiche economiche, sociali e di sicurezza (interna ed esterna). Non abbiamo l’ambizione di rispondere a questa domanda in queste pagine. Ci limitiamo ad osservare che l’Europa oggi si trova ad un bivio e crediamo che si aprano due possibili scenari opposti tra loro. L’Unione può andare verso una parcellizzazione, con conseguente disgregazione del mercato del libero commercio e il fallimento di una vera unione politica. Oppure può prodursi in un rinnovato sforzo verso una maggiore unità, anche politica, oltre a quella di natura economica e monetaria. E’ un tema che ci riguarda tutti, come cittadini prima ancora che investitori.

Solo nei prossimi mesi sarà possibile comprendere quale delle due strade percorrerà effettivamente l’Europa. Chi investe oggi ha già un elemento di rischio di cui deve tenere conto: ossia che anche i leader moderati occidentali saranno spinti almeno in parte a prendere in considerazione alcuni punti dell’agenda dei partiti di stampo populistico e antisistema, per rispondere ai (giusti) segnali di disagio degli elettori. Si potrebbe quindi assistere a spinte verso un aumento della tassazione delle imprese o a un ritorno a misure protezionistiche, oltre che a richieste di restrizione della libertà di circolazione delle persone in riposta alla crisi degli immigrati. Questi interventi porterebbero inevitabilmente a una ulteriore riduzione della crescita potenziale e a una pressione al ribasso sulla redditività delle imprese. Quello che ci vuole, al contrario, sono politiche fiscali espansive e coordinate a livello globale volte al sostegno degli investimenti in infrastrutture e in attività economiche reali. D’altra parte, se le banche centrali saranno lasciate ancora una volta sole nel proprio sforzo di sostegno alla crescita, una parte ancora più ampia del mondo dei titoli obbligazionari, governativi e non, sarà spinta nel territorio dei rendimenti negativi. In questo scenario, i meccanismi di aggiustamento delle differenze economiche tra le diverse aree, in presenza di politiche monetarie anche solo parzialmente divergenti, saranno affidati ai tassi di cambio, con movimenti anche violenti. Quello che si prospetta, insomma, è uno scenario in cui tassi prossimi allo zero si accompagneranno a rendimenti molto contenuti per tutte le asset class, azioni comprese, mentre dovremo convivere con episodi di volatilità molto accentuata. Uno scenario in cui le opportunità di investimento di lungo termine non mancheranno, ma queste, secondo noi, potranno essere colte soltanto da una gestione veramente attiva. La maggior parte del valore per gli investitori dovrà infatti venire dalla capacità di generare rendimenti aggiuntivi, attraverso la selezione di società e settori ingiustificatamente penalizzati dai mercati. Ma anche dalla capacità di adottare strategie efficaci per mitigare la volatilità e, soprattutto, preservare la stabilità dei portafogli nel medio lungo periodo.