Sempre più Cina nei portafogli degli investitori

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Chuttersnap, Unsplash

Tratto dalla rivista numero 30 Funds People - sezione Emergenti.

Lo scorso febbraio l'index provider MSCI ha annunciato l’intenzione di aumentare la ponderazione delle A-shares cinesi nel proprio indice di riferimento MSCI Emerging Markets, con la quota delle azioni di classe A che, in un processo a tre fasi che inizierà a maggio di quest’anno, passerà dal 5 al 20%. Inoltre, MSCI aumenterà la portata dell’inclusione mediante l’inserimento nell’indice di società a media capitalizzazione con un fattore di inclusione del 20% a novembre 2019. Al completamento del processo, le A-shares rappresenteranno il 3,3% dell’indice MSCI Emerging Markets – un risultato che, seppur apparentemente di poco conto, ha importanti conseguenze anche per gli investitori più globali. 

Stando a quanto affermato da Catherine Yeung, equity investment director Asia Pacific (ex-Japan) di Fidelity International, questa decisione - che ha colto di sorpresa gli investitori in quanto attesa per il 2020 - ha avuto origine diversi anni fa. Come ben ricordato da William Chuang, gestore del Framlington Asia Select Income A Capitalisation, il primo passo risale al giugno 2017, quando MSCI annunciò l’inclusione di 222 azioni cinesi di classe A di società large cap, facendo salire al 5% il fattore di inclusione. “Un annuncio piuttosto prevedibile dato che MSCI aveva già cominciato a muoversi dopo la quotazione in borsa di Alibaba nel 2015 per 25 miliardi di dollari”, segnala il manager di AXA IM. 

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Portafogli più cinesi

Ma cosa significa tutto ciò? “Che non è più possibile trascurare le oltre 3.500 società che sono quotate sulla borsa di Shanghai o su quella di Shenzhen”, riassume Chuang. In base ai calcoli di Fabrice Jacob, amministratore delegato di JK Capital Management Ltd (La Française Group), quadruplicare entro novembre il fattore di inclusione delle A-shares porterà un flusso di denaro passivo stimato di 12,5 miliardi di dollari. A questo va aggiunto il fatto che a giugno anche FTSE Russel inserirà azioni di classe A nei propri indici emergenti, portando altri 10 miliardi, mentre a settembre sarà la volta di S&P Dow Jones che porterà il fattore di inclusione nei suoi indici globali al 25%, aggiungendo altri 10 miliardi. Ipotizzando, inoltre, che i gestori attivi raggiungano livelli simili, cosa sono 40 miliardi di dollari di flussi in entrata per il mercato delle A-shares? “Corrisponderebbero a mezza sessione di negoziazione di Shanghai o Shenzhen”, stima Jacob. “Distribuiti nel secondo semestre 2019, questi afflussi saranno impercettibili, fatto salvo forse per alcuni piccoli picchi nei giorni dell’inclusione”. 

Per questo motivo, secondo l'AD, l’aumento del fattore di inclusione inciderà più sugli investitori esteri che sul mercato delle A-shares. All’interno di un mandato azionario emergente, le A-shares rappresenterebbero, stando alle stime di Jacob, un 3% del portafoglio a fine anno, e fino al 15% in alcuni anni, nel momento in cui si raggiunge l’inclusione completa. È daccordo anche Gael Combes, head of Equity Investments Fundamental Analysis di Unigestion, che afferma: “All’interno del nostro fondo globale, la seconda maggiore esposizione geografica dopo gli Stati Uniti potrebbe diventare la Cina, andando a sostituire il Giappone. I fondi emergenti o asiatici potrebbero essere quelli più colpiti da questa novità, in quanto la Cina con la sua continua ascesa potrebbe diventare il principale driver dell’asset class. Tanto più se Taiwan o Corea del Sud dovessero essere riclassificate tra i Paesi sviluppati”. 

Una possibilità che gli esperti sembrano gradire molto, dato che il mercato delle A-shares offre diversificazione su diversi fronti, a livello settoriale e di capitalizzazione. Come risulta dal grafico in alto e ben riassunto da Stefan Scheurer, senior analyst Emerging Markets Investments in Allianz GI, le A-shares spianano la strada ad aree di crescita strutturale come i settori di beni di consumo, prodotti industriali, tecnologie informatiche o nuovi materiali. Senza contare che rappresentano un’alternativa alle mega-cap. Secondo l’esperto, la metà dei titoli ha una capitalizzazione di mercato inferiore ai 10 miliardi di dollari. E sono proprio queste società più piccole, quelle della 'nuova Cina', che vantano maggiori prospettive di crescita. 

Per questo, le società di gestione saranno obbligate ad agire di conseguenza. Al raggiungimento di una ponderazione del 100%, le A-shares rappresenterebbero un 40% dell’indice dei mercati emergenti. “È naturale che gli investitori vogliano gestire direttamente la propria esposizione alla Cina”, osserva il team azionario di M&G Investments, ragion per cui ci si aspetta una predilezione per fondi specifici cinesi, oltre che il lancio di fondi globali dei mercati emergenti (Cina esclusa). 

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Impatto sul mercato

A fronte dei numeri indicati da Jacob, i calcoli effettuati da UBS AM sono ancora più ottimisti. Se consideriamo che dopo questa tappa fondamentale anche gli investitori attivi, le Banche centrali e i fondi sovrani dovranno prendere in considerazione le obbligazioni cinesi, i numeri saranno ancora più elevati, osservano dall'asset manager. “Anche solo considerando il volume di denaro e l’adeguamento dei mercati mondiali dei capitali, questo cambiamento risulta tra i più radicali da diversi anni”, decreta Hayden Briscoe, responsabile del comparto obbligazionario della società di gestione per la regione Asia-Pacifico. Anche se la liquidità non è mai stata un problema in passato, Bin Shi, chinese equity investment director di UBS AM, prevede un costante aumento su questo fronte. E infatti gli investitori, gestori globali compresi, hanno già iniziato a manifestare un crescente interesse nei confronti di grandi nomi di qualità della Cina continentale.

Ma la maggior partecipazione degli investitori esteri ha ripercussioni anche sulle società stesse, non solo sul loro corso azionario. Il capitale che arriverà dai grandi fondi istituzionali sarà investito con una visione di lungo periodo più stabile. “Questa istituzionalizzazione del denaro obbligherà le imprese locali a rispettare best practice e standard globali di responsabilità, migliorando di conseguenza i livelli di corporate governance e quindi rendendo il mercato più appetibile per gli investitori”, affermano da Aberdeen Standard Investments

Aspetti da perfezionare

Restano ancora da perfezionare alcuni aspetti specifici, perché iniziare ad aprire le porte del mercato cinese non significa necessariamente dare il via libera agli investimenti. E questo lo ricorda molto bene Andrew Graham, head of Asia di Martin Currie, l’affiliata di Legg Mason specializzata negli investimenti azionari. Le partecipazioni azionarie degli investitori stranieri nelle società cinesi hanno ancora un limite complessivo del 30%, indipendentemente dal metodo utilizzato per aver accesso alle A-shares. Al raggiungimento del 28%, la Borsa di Hong Kong interviene infatti a limitare gli ordini di acquisto sulla piattaforma Northbound Connect. E anche se solo il 7% delle A-shares è al momento in mano agli investitori internazionali, non sono mancati i primi problemi con alcune small cap e mid cap. A questo proposito Graham cita il caso di Hans Laser Technology, società che fornisce apparecchiature ad Apple e che è stata recentemente rimossa dall’indice MSCI per il superamento di questo limite. 

Oltre a ciò, Charlie Sunnucks, fund manager Emerging Markets di Jupiter AM, sottolinea il fatto che la maggior parte delle società che emettono A-shares non predispone una documentazione in lingua inglese, cosa che crea problemi di comunicazione alle imprese estere. 

Dati questi presupposti, risulta chiaro che l’importanza di questa notizia non è legata tanto alle sue implicazioni tecniche quanto al messaggio trasmesso, sintetizzato perfettamente dal team azionario di M&G Investments con queste parole: “La Cina è aperta agli investitori istituzionali”.