Carmelo Barbagallo, capo del dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, annota alcune pecche dell'asset management italiano durante l'evento AFB - Bocconi Academy.
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Costi troppo elevati, una gestione online che fatica ad ingranare e nessun provider di ETF domestico. Senza contare la scarsa educazione finanziaria dei risparmiatori e le sfide che si delineano nel prossimo futuro, sia per gestori che per distributori. Sono solo alcune delle pecche che il risparmio gestito italiano si porta dietro, secondo quanto evidenziato da Carmelo Barbagallo, a capo del dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, durante l'evento AFB - Bocconi Academy tenutosi a Milano.
L’asset management si trova di fronte ad un rivoluzione interna ed esterna. C’è “il ritorno della volatilità sui mercati, maggiori costi di compliance, pressioni sui prezzi da parte dei clienti, concorrenza accresciuta sia nell’ambito degli operatori tradizionali che tra questi e i nuovi soggetti del fintech, necessità di investimenti per migliorare il servizio alla clientela, vincoli di capitale”, sottolinea il capo vigilanza. Eppure, preso atto dei fattori di cambiamento e delle sfide future, Bankitalia bacchetta gli operatori del settore. E su più fronti.
Da una parte c’è l’annoso tasto dei costi dei fondi d’investimento. Sebbene il risparmio gestito sia cresciuto a spron battuto (a fine 2017 i prodotti di risparmio gestito collocati in Italia hanno superato la soglia dei 2.000 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2012), “negli ultimi dieci anni i costi dei fondi comuni italiani sono risultati in aumento sia per via della crescente applicazione di commissioni di entrata/uscita sia per l'introduzione delle commissioni di collocamento nei fondi a scadenza". Inoltre "l'incremento della quota di mercato dei gestori esteri non si è tradotto in un calo dei costi: da uno studio pubblicato dalla Consob si ricava che, a parità di categoria, le classi di quote dei fondi esteri offerte in Italia al retail hanno costi in linea se non superiori a quelli dei fondi domestici", ha detto Barbagallo.
Posto poi che gli spazi per una riduzione dei costi per la clientela risiedono nella componente della distribuzione più che in quella della produzione, come sottolinea l’esperto, l’aspetto online ancora scarseggia. “La sottoscrizione di prodotti di risparmio gestito senza ricorrere all’intermediazione di un collocatore è assai limitata, anche con riguardo a quelli negoziati in Borsa. La sottoscrizione diretta dei fondi in Borsa non è decollata; il mercato registra volumi molto bassi, nonostante la disponibilità di fondi con commissione di gestione contenuta grazie all’assenza della componente destinata a remunerare la distribuzione. Nessuno dei maggiori gestori italiani ed esteri ha inserito i propri prodotti nella piattaforma, rendendo limitata la gamma di strumenti disponibili agli investitori. È verosimilmente prevalsa la preoccupazione che l’apertura di un canale di collocamento diretto, in concorrenza con le proprie reti distributive, potesse compromettere gli sforzi di fidelizzazione della clientela”, spiega il capo vigilanza di Bankitalia. “La crescente familiarità degli investitori verso l’utilizzo degli strumenti digitali nei pagamenti e nelle transazioni finanziarie può creare le condizioni per il lancio, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, di modelli di collocamento che si sono affermati da tempo negli Stati Uniti e che vedono l’utilizzo esclusivo del canale online da parte di grandi asset manager per collocare le quote dei fondi gestiti e per offrire servizi di consulenza personalizzata ai risparmiatori. Dati i prezzi praticati da questi operatori per il servizio di consulenza al pubblico retail (nell’ordine dei 30 basis points) e il prezzo implicito pagato per la distribuzione dai sottoscrittori dei fondi comuni italiani (superiore ai 90 basis points) si può facilmente immaginare quanto spazio ci sia per una concorrenza più incisiva”.
Inoltre, continua l’esperto “da una panoramica dell’offerta del risparmio gestito nel nostro Paese emerge altresì come gli operatori italiani siano assenti dal mercato degli ETF, prodotti con costi contenuti grazie a politiche di gestione di tipo passivo, che si è pur tuttavia sviluppato con ritmi non dissimili da quelli degli altri paesi: dai dati di Borsa Italiana al 30 giugno 2018, il patrimonio investito nei prodotti quotati in Italia, tutti di diritto estero, era di circa 60 miliardi. Sono soprattutto gli investitori istituzionali a sottoscrivere questi prodotti, mentre la clientela retail detiene un limitato ammontare di tali strumenti”.
Insomma, il tiro va aggiustato e una buona mano la potranno dare sia MiFID II che il fintech, con cui società di gestione e banche stanno facendo i conti. Senza dimenticare l’educazione finanziaria. “Occorre sviluppare l’educazione finanziaria soprattutto verso la componente più minuta del risparmio, che si rivolge agli sportelli bancari al di fuori dello schema della consulenza. L’assistenza fornita dalle reti di vendita ai clienti nell’ambito dell’attività di collocamento di prodotti finanziari dovrebbe qualificarsi per la capacità di generare educazione finanziaria nei confronti dei clienti innalzandone il livello di consapevolezza. Verso il medesimo obiettivo dovrebbe indirizzarsi il disegno dei prodotti destinati al grande pubblico, che dovrebbero distinguersi per chiarezza e semplicità”, conclude Barbagallo.