Il presidente Padula ha indicato le stime preliminari sul 2021 e illustrato le caratteristiche del sistema pensionistico nell’audizione in Parlamento. Necessari “incentivi mirati per categorie fragili”.
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Un sistema che va in direzione di una “razionalizzazione” a cui contribuiscono operazioni di concentrazione (soprattutto tra i fondi pensione preesistenti) e gli elevati standard di organizzazione interna stimolati dalla direttiva UE Iorp II e all’azione della Covip.
Nel definire l’impianto del sistema previdenziale italiano, il presidente della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, Mario Padula, ha illustrato le caratteristiche salienti, sia dal punto di vista evolutivo (fin dalla sua definizione all’inizio degli anni ‘90), sia da un punto di vista “dimensionale”. E non ha escluso la possibilità di un intervento diretto dello Stato per garantire sostegno alle categorie più fragili (donne e giovani).
L’occasione è stata l’audizione del 5 maggio scorso presso la Commissione parlamentare di controllo sugli Enti previdenziali, in cui Padula ha anticipato le stime preliminari sui numeri della previdenza complementare nel 2021, che conta 349 forme pensionistiche suddivise fra “33 fondi negoziali, 40 aperti, 72 piani individuali pensionistici (PIP) ‘nuovi’, 204 fondi preesistenti”. Questo si traduce, a livello di platea di interessati, in un totale di iscritti alla previdenza complementare pari a circa 8,8 milioni, circa il 33% dei partecipanti alla forza lavoro in Italia. I PIP ‘nuovi’ raccolgono circa 3,6 milioni di posizioni, seguiti dai fondi pensione negoziali (3,5 milioni), i fondi aperti (1,7 milioni), i preesistenti (650 mila) e, infine, i PIP ‘vecchi’ (320 mila). “Su questi andamenti l’impatto della pandemia è stato complessivamente lieve e solo temporaneo”, afferma Padula indicando un rallentamento di nuove adesioni e flussi contributivi nei mesi centrali del 2020, “successivamente il sistema ha riguadagnato le tendenze in essere prima della pandemia”.
Le risorse
In termini di risorse, le forme pensionistiche complementari a fine 2021 hanno accumulato oltre 210 miliardi di euro (sempre sulla base di stime preliminari), l’equivalente del 12% del PIL e del 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. La previdenza complementare conferma, anche in questo caso, la sua “forza” da un punto di vista dei ritorni finanziari. Su un periodo di osservazione decennale (2012-2021), il rendimento netto medio annuo composto, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, è stato del 4,1% per i fondi negoziali e del 4,6 per i fondi aperti; nei PIP si è attestato al 5% per le gestioni di ramo III e al 2,2 per quelle di ramo I. Le differenze di rendimento tra le diverse forme sono correlate positivamente alla quota di azioni presente nei rispettivi portafogli. Su analogo orizzonte temporale la rivalutazione annua composta del TFR è stata dell’1,9 per cento. I PIP, in ogni caso, si confermano anche come gli strumenti più onerosi per i risparmiatori. Sullo stesso orizzonte temporale, infatti, l’Indicatore Sintetico dei Costi (ISC) è in media del 2,18% (1,87% per le gestioni separate di ramo I e 2,35% il ramo III).
Inclusione previdenziale
Uno dei motori nella crescita delle adesioni alla previdenza complementare (soprattutto nel settore dei fondi pensione negoziali) è stata la cosiddetta “adesione contrattuale” che prevede l’iscrizione automatica del lavoratore al proprio fondo di riferimento. Una prima “ondata” è legata all’introduzione di questa misura nel 2015, e ha portato, complessivamente, circa un terzo degli aderenti ai negoziali. “Tuttavia – specifica Padula –, in gran parte dei casi all’adesione al fondo che ha così avuto luogo non è seguito alcun versamento contributivo ulteriore, per cui le posizioni degli iscritti sono rimaste modeste in termini di valore”. Degli 8,8 milioni di iscritti a una forma di previdenza complementare, circa 1,2 milioni derivano dalle adesioni contrattuali. L’adesione, inoltre, non è fattore determinante per il versamento. Nel 2020 i mancati versamenti contributivi hanno interessato 2,2 milioni di soggetti, mentre oltre 1 milione non versa da almeno cinque anni. L’importo medio versato è pari a 2.740 euro ma anche in questo caso occorre fare delle precisazioni: il 24,4% degli iscritti contribuisce con meno di mille euro (il 30,3% nel caso dei negoziali), il 14,6% tra mille e 2 mila euro; il 10,6% tra 2 mila e 3 mila euro. Alle classi successive appartiene un numero via via inferiore di iscritti; fa eccezione la fascia di versamento tra 5 mila e 5.500 euro (che include il limite di deducibilità fiscale dei contributi, fissato dalla normativa in 5.164,57 euro), alla quale appartiene il 6,8% degli iscritti.
Per quanto riguarda, infine, il profilo degli aderenti per fasce di età la partecipazione degli under 35 è pari al 22,7%, inferiore di circa un terzo a quella delle fasce di età centrali (35-54 anni). Per genere, il tasso di partecipazione delle donne, 29,7%, è pari a quattro quinti di quello degli uomini (35,5%); anche la contribuzione rimane di un quinto inferiore. “In linea generale, nelle situazioni in cui maggiore sarebbe l’esigenza di integrare la pensione di primo pilastro con quella complementare, il grado di partecipazione è quindi più basso”.
Fattori limitanti e proposte di intervento
Tra i fattori che limitano le potenzialità di crescita della previdenza complementare, Covip ha individuato, in primis, l’elevato livello di contribuzione al primo pilastro pensionistico nel nostro Paese. A questo si somma il tema della fiscalità. Pur se dalla definizione dell’impianto si è cercato di porre una fiscalità di favore, "la crescente incidenza di carriere discontinue e frammentate, spesso accompagnate da curve salariali piatte, dovrebbe indurre a riconsiderare il complesso di strumenti destinati ad incentivare il risparmio previdenziale", ha osservato Padula sottolineando come “complessivamente, gli attuali incentivi fiscali non appaiono ben mirati rispetto a segmenti del mercato del lavoro più fragili e perciò più bisognosi di protezione sociale”. Secondo il presidente di Covip, gli incentivi andrebbero dunque “rimodulati in funzione del reddito degli iscritti per costruire un risparmio previdenziale anche da parte delle classi di reddito più basse”, senza escludere un intervento diretto dello Stato “a sostegno delle posizioni pensionistiche di determinate categorie, e in particolare delle fasce di età più giovani”.