Iggo (Axa IM): "I movimenti del mercato si devono alla scarsa liquidità e all'assenza di buone notizie"

chris_iggo_-_axa_im_recorte
immagine ceduta

L'aumento estivo della volatilità di solito è un chiaro segnale delle difficoltà che potrebbero attraversare gli strumenti rischiosi nel corso del terzo trimestre , e quest'anno non dovrebbe essere un’eccezione. Quest'anno due forze hanno messo in scena queste difficoltà: il sempre più complicato processo di adeguamento in atto in Cina e la lunga attesa di una normalizzazione della politica monetaria della Fed. "Per gli investitori obbligazionari, il 2015 non è stato un buon anno", commenta Chris Iggo, CIO Fixed Income di AXA Investment Managers. "A fronte del rialzo sia dei tassi core che degli spread, i total return sono a zero o negativi. Pur dubitando che la situazione possa migliorare a breve, probabilmente in questo momento vale la pena rimanere lunghi di duration, in quanto la tendenza risk-off di questa fine estate potrebbe riportare i mercati dei titoli di Stato core ai livelli di rendimento minimi cha avevano contraddistinto la prima parte di quest'anno", osserva. 

E aggiunge: " A un certo punto i livelli bassi delle valutazioni finiranno per avere il sopravvento sui timori riguardo i fondamentali, specialmente nei mercati sviluppati dove il contesto macroeconomico resta positivo per il credito e gli aumenti dei tassi saranno molto contenuti". In cambio Iggo avverte che nei mercati emergenti le cose non sono così semplici. "La Cina deve fare i conti con la sua fase di rallentamento, e i prezzi di commodity e dollaro devono stabilizzarsi. Arriverà il momento per rientrare in questi mercati, ma è meglio aspettare le mosse della Fed e attendere che gli spread del credito dei mercati emergenti si allarghino ulteriormente rispetto ai livelli odierni".

Cina ed emergenti, cosa aspettare?

Iggo richiama l'attenzione circa i cambiamenti nel discorso sulla Cina. Fino a qualche tempo fa, non si parlava della Cina senza accennare a uno sviluppo inarrestabile con una crescita annua superiore al 10%, al boom delle esportazioni, all'enorme surplus delle partite correnti, a un accumulo di riserve senza precedenti e al potenziale di un massiccio apprezzamento della valuta nazionale non appena si fossero allentati i controlli sui capitali. 

"In parte queste mosse erano già in programma", ricorda Iggo facendo riferimento all'intenzione delle autorità di abbandonare l’attuale modello di crescita orientato alle esportazioni per passare a un modello trainato dalla domanda interna. "Questo processo renderà più equilibrata l'economia cinese, con risorse destinate alla domanda interna più che alle esportazioni, e consentirà al settore manifatturiero nazionale di salire nella catena di creazione del valore". Ma la questione agli occhi dell'esperto è che "il cambio di paradigma è difficile, soprattutto perché il vecchio sistema ha generato corruzione e inefficienze su tutti i livelli dell'economia. I contraccolpi si avvertono in tutto il resto del mondo". 

Come questi cambiamenti influenzano il resto del mondo emergente? Il rallentamento della crescita e degli investimenti in Cina ha notevolmente ridotto il consumo nazionale di energia e di altre materie prime, contribuendo alla flessione dei prezzi delle commodity in atto dal 2011 e, sicuramente, anche al crollo dei prezzi petroliferi da un anno a questa parte. "La flessione dei prezzi delle commodity implica una riduzione dei proventi per i paesi produttori di materie prime, sia a livello nazionale che per le singole imprese coinvolte. Al tempo stesso, la riduzione dei volumi di scambio in Cina ha penalizzato altre economie asiatiche". Il valore monetario delle esportazioni cinesi ha raggiunto il picco in termini di crescita su base annua nel 2010, quando le esportazioni evidenziavano una crescita del 40%. Nel 2015 la crescita è negativa e ad essa ha corrisposto un rallentamento della crescita delle importazioni. Ciò comporta una riduzione dei volumi di scambio sia a livello regionale che globale.

Al momento prevalgono le cattive notizie

Iggo approfondisce le difficoltà che stanno attraversando molte economie emergenti: in questo momento la situazione globale è fosca. Il calo dei prezzi delle materie prime ha ridotto i proventi da esportazione. Il dollaro si sta rafforzando in vista di possibili aumenti dei tassi di interesse USA. L'indebolimento delle valute emergenti implica un aumento del tasso di inflazione o dei tassi di interesse, o di entrambi, nei rispettivi paesi, elementi negativi per la crescita e che scoraggiano gli afflussi di capitali stranieri. La crescita rallenta e le valute si indeboliscono ulteriormente. Le riserve estere si riducono e diventa più difficile assicurare il pagamento degli interessi del debito emesso in dollari. Ne consegue infine una crisi del debito, che può sfociare in casi di default. "Attualmente assistiamo a una reazione dei mercati a questo tipo di situazione, con forti pressioni sulle valute emergenti e sui mercati azionari, che si sta propagando ai mercati sviluppati". Questo porta a concludere che "i movimenti del mercato si devono alla scarsità di liquidità e l'assenza di buone notizie del mese di agosto. Anche l'arrivo di dati più robusti di provenienza USA – come le recenti notizie positive sul fronte del mercato immobiliare – non fa che consolidare i timori di un imminente aumento dei tassi da parte della Fed". 

L'indecisione della Fed

"Togliersi di mezzo il primo rialzo dei tassi da parte della Fed potrebbe essere un sollievo per i mercati, l'attuale indecisione non è d'aiuto". Considerando il fatto che l'economia USA gode di ottima salute in termini di domanda interna, la Fed dovrebbe aver avuto forza sufficiente per far valere la scelta della normalizzazione. Invece, la mancanza di decisività ha portato i mercati a un costante re-pricing rispetto alla probabilità di un suo intervento a settembre, a dicembre o chissà quando. "Prevale una mentalità da “Greenspan put”, per cui a fronte di movimenti risk-off la reazione collettiva consisterebbe nel prevedere ulteriori rinvii". L'esperto pensa che "un'ipotesi plausibile potrebbe essere quella di un primo aumento quest'anno, seguito da un paio di aumenti nella prima metà del 2016, con un ciclo di inasprimento più aggressivo solo nel caso in cui dovessero profilarsi segnali di inflazione più forti". 

Il mercato obbligazionario ha così anticipato l'inizio della normalizzazione, ma suppongo che l'elemento relativamente sorprendente sia che si è trattato di una reazione ispirata all'avversione al rischio più che di uno shock di duration. Un certo grado di certezza riguardo alla direzione della politica monetaria USA potrebbe contribuire a stabilizzare i mercati del credito. Se la Fed continuerà a esitare, il pericolo di premi al rischio elevati nei mercati obbligazionari potrà soltanto aumentare.

La raccomandazione di Iggo è "un posizionamento difensivo in ambito obbligazionario, ossia con un'esposizione a titoli di qualità più elevata e con duration più breve, specialmente negli USA e nel Regno Unito, dove ci attendiamo un aumento dei tassi. Quest'anno riserverà scarsi rendimenti ai detentori di obbligazioni rispetto a gran parte dell'ultimo decenni". Tuttavia, Iggo ha in più occasioni ribadito che "le fasi ribassiste non durano così a lungo sui mercati obbligazionari a causa dell'opportunità di rientrare sul mercato con livelli più elevati di rendimento a scadenza. La soluzione consiste chiaramente nell'evitare perdite sul credito, ma in questo possono essere di aiuto la diversificazione e una gestione attiva". Per il 2016 prevede che "alcuni investitori potrebbero andare alla ricerca di entry point con un rendimento del 4% nel segmento del credito di qualità elevata US e UK, del 5,5%-6,0% nel settore dei titoli europei High Yield e intorno all'8% nel segmento High Yield USA".