Un potenziale valore aggiunto per l'Italia, a maggior ragione in momenti di crisi come quello attuale. Contributo a cura di Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.
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Contributo a cura di Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.
Ripartire. È questo il leitmotiv che risuona costantemente nelle discussioni di tutti gli italiani, dai salotti delle abitazioni ormai chiuse da troppo tempo alle attività produttive dei piccoli imprenditori ancora costretti a tenere chiuse le serrande, fino ad arrivare alle stanze del governo. Tutti si stanno chiedendo quando si potrà tornare alla normalità, o almeno a qualcosa che le somigli. Ci sarebbe tanto da scrivere e tanto da dire sul coraggio mancato nel passare dagli stringenti vincoli imposti durante la fase di scoppio dei contagi al tanto sperato allentamento degli stessi che, in realtà, non c’è stato. È una fase due a metà, poco chiara, che si assume rischi quasi zero e che restituisce a un Paese fortemente provato dall’epidemia la preoccupazione sul futuro della tenuta economica. La tutela della salute è certamente lo scopo che guida le scelte dell'esecutivo, ma la produttività di una nazione non può rimanere bloccata oltre.
Il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha stimato, nel caso di ripartenza (vera) entro il 20 maggio, una caduta del PIL dell’11% con un contestuale innalzamento del debito pubblico di circa 100 miliardi e un conseguente rapporto debito/PIL oltre il 153,7%. Il DEF, presentato il 24 aprile, prevede una contrazione del PIL dell’8% e molti altri centri studi internazionali attestano le loro stime su questi valori, se non oltre. Sono dati allarmanti e sotto gli occhi di tutti ma che ben testimoniano l’importanza di fare in fretta e mettere in campo ogni misura necessaria per il sostegno della ripresa. Ripresa che non potrà esserci se le micro, piccole, medie e grandi imprese non potranno tornare a produrre, a fare business, a esportare; se non si innescherà quella dinamica virtuosa di investimenti pubblici in grandi opere e infrastrutture nazionali sarà difficile trovare la spinta necessaria per far crescere l’economia. Insomma non ci sarà ripresa se non tornerà a circolare la liquidità, tanto tra le aziende quanto tra i consumatori.
È per questo che gli interventi da mettere in campo dovranno avere una duplice valenza: fornire le risorse necessarie alle imprese che hanno visto inesorabilmente azzerarsi le entrate e tutelare l’impiego per non rischiare di ritrovarsi con un numero elevato di disoccupati e, quindi, la necessità di adottare (ulteriori) misure assistenziali che dovrebbero essere finanziate con altro debito. Un bel circolo vizioso. Così oltre agli interventi pubblici sia nazionali sia (finalmente) a livello europeo che sembrano prendere forma, tra le possibilità su cui da tempo si dibatte, e che si mira ad accrescere e incentivare, c’è il grande contributo che in parte già arriva dai grandi patrimoni istituzionali.
Investitori come Fondi Pensione, Casse di Previdenza e Fondazioni di origine Bancaria, ciascuno secondo i propri obiettivi e vincoli verso aderenti e territori, sono un anello ormai indispensabile per il Paese. Oltre a svolgere il loro compito di erogatori di prestazioni di previdenza integrativa (per i Fondi Pensione), di primo pilastro per le Casse e di grande sostegno ai territori nel caso delle Fondazioni di origine Bancaria attraverso le loro consistenti erogazioni, nel tempo hanno sviluppato competenze e propensione verso un ruolo sociale e di welfare che permea il sistema. Il dibattito intorno al loro ruolo di investitori nell’economia reale italiana infatti è quanto mai attuale, ma deve essere affrontato anche dal punto di vista dimensionale per avere il quadro completo delle rispettive possibilità. Senza entrare nel merito del funzionamento del sistema pensionistico dei diversi Paesi, il confronto internazionale sulle dimensioni patrimoniali della previdenza complementare rispetto al PIL può fornire un aiuto nell’analizzare la crescita registrata dai Fondi Pensione italiani.
Seppur nati relativamente tardi rispetto a molti altri Paesi d’Europa, questi hanno visto una crescita dimensionale notevole negli anni. Come evidenzia il seguente grafico, la previdenza complementare italiana si colloca però ancora verso la parte bassa della classifica per rapporto patrimonio/PIL.
Nel 2007, con un valore pari al 3,1% l’Italia occupava il 27° posto nella classifica dei 36 Paesi appartenenti all’area OCSE; nel 2018, quel valore è salito al 7,6%, portando il Paese al 23° posto. Nell’arco temporale considerato, la previdenza complementare in Italia ha più che raddoppiato il proprio patrimonio, dinamica che ha interessato la maggior parte dei Paesi europei seppur con entità diversa e che ben testimonia come l’esigenza di un secondo pilastro sia diffusa praticamente in tutte le nazioni sviluppate.
Quanto riportato restituisce due elementi di valutazione: il primo è che la previdenza complementare italiana ha conosciuto un buon tasso di crescita dalla sua introduzione, superiore alla quasi totalità dei Paesi considerati; il secondo, derivante dalle evidenze internazionali, è che un livello soddisfacente di diffusione della stessa si dovrebbe attestare intorno al 50% degli occupati. In Italia ci si ferma circa al 30%, indicazione di quanto ancora i patrimoni possano vedere accrescere la propria dimensione. A beneficiarne sarebbe una maggiore strutturazione interna in termini di governace, di gestione delle risorse e del relativo impiego sui mercati finanziari; insomma Fondi patrimonialmente più grandi consentirebbero, evidentemente, una maggiore strutturazione dei fondi pensione stessi, strutturazione che a cascata si riverserebbe sulla loro efficienza gestionale.
Di pari passo è cresciuta anche la propensione delle varie forme di previdenza complementare, delle Casse di Previdenza (primo pilastro) e delle Fondazioni di origine Bancaria a investire nell’economia reale italiana. In attesa di conoscere i risultati aggregati che saranno presentati a settembre nel Settimo Report sugli Investitori istituzionali Italiani curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, le analisi contenute nella precedente edizione (Sesto Report) riferite ai valori di bilancio degli Enti a fine 2018, restituiscono quanto riportato nella seguente tabella.
Se per Casse di Previdenza e Fondazioni si evince un consistente investimento nell’economia reale italiana, rispettivamente del 48,6% e del 16,31% dell’attivo, buona parte della previdenza complementare ha ancora ampi margini di miglioramento, come peraltro testimoniano le note iniziative di investimento anche consortili degli ulti anni.
Fonte: Sesto Report sugli Investitori istituzionali italiani, Itinerari Previdenziali
Per attualizzare il più possibile quanto detto, incentivare l’adesione alla previdenza complementare e aumentare il peso del patrimonio sul PIL nazionale può portare notevoli benefici al Paese: a partire dalla copertura previdenziale degli aderenti, passando per un maggiore investimento nell’economia reale nazionale per via di patrimoni più grandi e quindi maggiormente diversificati, e di conseguenza, fornire un forte sostegno al tessuto produttivo nazionale che mai come adesso ha bisogno del contributo di tutti. Accrescere le dimensioni patrimoniali degli investitori previdenziali, in particolare della previdenza integrativa e fornire al sistema gli strumenti più adatti allo scopo anche attraverso incentivi fiscali può essere la leva in più per il futuro dell’Italia. Per il rilancio della nazione non servirà solamente superare le ripercussioni di COVID-19, ma un piano lungimirante che intervenga anche a favore della crescita dei patrimoni istituzionali. Così facendo si restituirà all’Italia un’arma in più per combattere nuovi choc e cementare il loro ruolo di volano per lo sviluppo dell’economia reale.