Claudio Barberis, Head of Asset Allocation di MoneyFarm
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Nonostante ormai diversi anni di buona performance dei mercati finanziari e diversi indicatori che segnalano una certa tranquillità degli operatori, il dibattito sulla gestione del debito pubblico nei paesi sviluppati non è mai terminato. In questi giorni, con l’inizio del semestre italiano in Europa, si nota anzi un rinnovato interesse al tema da parte di economisti e investitori.
In MoneyFarm investiamo sui titoli di stato dei paesi periferici dell’Eurozona attraverso ETF, per cui val la pena aggiornare la nostra idea di investitori sull’argomento, dopo due anni di ottime performances di questo segmento e con spreads ormai molto stretti (e quindi prospettive limitate di ulteriori buoni rendimenti).
Partiamo dalla considerazione che i debiti pubblici in Eurozona, nonostante anni di interventi e azioni attive, si stanno appena ora stabilizzando e restano su alti livelli storici. Questo alto debito pubblico vincola le politiche economiche dei governi e le scelte di consumo dei cittadini, creando un circolo vizioso che è difficile da invertire. Storicamente, secondo studi di storici specializzati sull’argomento, nei paesi “sviluppati” si sono avuti casi di successo di gestione di alti debiti pubblici e casi di insuccesso. Tra i casi di successo quello della GranBretagna dopo le guerre napoleoniche o la gestione dei debiti di guerra dopo la seconda guerra mondiale. Tra i più noti casi di insuccesso, il default francese successivo alla rivoluzione francese o la gestione dei debiti di guerra della Germania dopo la prima guerra mondiale.
Il metodo più “drastico” è il default o la ristrutturazione del debito, come si è fatto in Grecia e come negli ultimi decenni è successo per molti paesi emergenti. Si tratta di un approccio rischioso, che espone le economie a shock non ben valutabili in anticipo e potrebbe dare enormi problemi per un sistema bancario come quello europeo in cui il debito pubblico è parte integrante degli attivi di bilancio di tutte le bance. Il default inoltre non fa onore a politici e burocrati di paesi finanziariamente “evoluti”, dove vedremo che le alternative sono diverse. Non va poi sottovalutato che un default sul debito pubblico va a colpire la classe media o le categorie più disagiate, il cui patrimonio è principalmente investito in fondi pensione, polizze vita o prodotti finanziari il cui andamento è spesso legato in modo diretto a quello dei titoli di stato. Infine, il default di un paese con il debito pubblico al 130% difficilmente sarebbe indolore per un paese confinante in cui il debito è al 90%.
Il secondo approccio è quello di generare una sorpresa inflazionistica, ossia un netto rialzo dei prezzi nell’economia, in modo inatteso. Il rapporto debito/pil vede così il denominatore crescere per il semplice aumento dei prezzi, mentre il numeratore è nel breve periodo fisso, con la conseguenza che il rapporto scende. Anche questo metodo presenta molti rischi, perchè l’inflazione è un fenomeno difficile da controllare quando scappa di mano e una volta ridotto il rapporto debito/pil sorgono altri problemi, in altri segmenti dell’economia per via di prezzi in crescita eccessiva. Nei paesi sviluppati inoltre, la crisi ha portato con sè una serie di tensioni deflazionistiche, cosicchè le banche centrali oggi si trovano nella situazione opposta e con fatica stanno cercando di stimolare l’inflazione, per cui sembra lontana la possibilità di una salita repentina e inattesa dei prezzi. Di certo lo sforzo delle banche centrali per generare un po’ di inflazione resterà una componente importante della strategia di gestione dei debiti pubblici. Quando finalmente il livello dei prezzi tornerà a salire, questo approccio dovrà combinarsi con un controllo dei tassi di interesse (repressione finanziaria), in modo da evitare che il costo di rinnovo del debito pubblico salga velocemente.
Il terzo approccio, molto utilizzato fino ad ora in Eurozona, è la ben nota “austerity”. Si taglia la spesa pubblica o si alzano le tasse. L’austerity è da molti criticata perchè soffoca i consumi e la fiducia degli operatori economici. Da altri viene vista come un giusto sforzo da parte di popolazioni che per decenni hanno gestito male i propri conti pubblici. Va sottolineato che l’austerity può essere realizzata in molti modi e andare a colpire segmenti specifici dell’economia. Un recente lavoro di analisi sulla distribuzione della ricchezza nel mondo, condotto dall’economista francese Thomas Piketty, mostra ad esempio che in Eurozona si trovano governi poveri e famiglie ricche, soprattutto in periferia. Colpire in modo mirato e progressivo i patrimoni sta diventando quindi uno dei cavalli di battaglia di diverse fazioni (di economisti o politici).
L’approccio più sano alla gestione del debito pubblico resta il quarto, ossia quello della crescita. Economie con più crescita riescono a ripagare più velocemente il debito pubblico. Per agevolare la crescita molti governi europei stanno puntando su riforme strutturali che però richiedono tempo per essere discusse, approvate e avere effetto. Da qualche mese si vedono in Eurozona buoni segnali economici, nella fiducia degli operatori e in qualche caso anche nei dati finali di crescita. Questo resta il metodo principe per la soluzione del problema del debito pubblico, senza controindicazione alcuna se non la difficoltà nel realizzarlo.
L’ultimo approccio, noto come “repressione finanziaria”, riguarda tutti quegli approcci legislativi e monetari per agevolare l’investimento in titoli pubblici e mantenere basso il costo di gestione del debito. Rientrano in questo campo la tassazione agevolata per chi ha rendite da investimenti in titoli pubblici oppure l’incentivo a banche e fondi pensione all’acquisto di titoli di stato. Rientrano anche parzialmente in questo campo alcune delle misure implementate in questi anni dalla Banca Centrale Europea. Il metodo è efficace ed è stato tra quelli più utilizzati nel secondo dopoguerra. E’ degli anni ‘60/’70 l’appellativo “certificati di confisca” con cui ci si riferiva a titoli pubblici che rendevano poco con economie e prezzi in forte crescita.
Arriviamo ora al punto, ossia se convenga ancora investire in titoli di stato dei paesi periferici europei nonostante rendimenti meno appetibili di due anni fa.
Per il momento in MoneyFarm riteniamo che la risposta sia affermativa e che la rinnovata attenzione sul tema del debito pubblico sia un fatto positivo e non un campanello d’allarme per gli investitori. I titoli periferici rendono poco, anche in termini assoluti, ma in proporzione si tratta sempre di alti rendimenti rispetto a quelli offerti dai paesi “core”, come Francia o Germania.
A livello politico le strade da percorrere sono potenzialmente tante, tra le quali la ristrutturazione o il default del debito sono le più grezze, indegne di sistemi finanziari sviluppati. Un mix di approcci, come quello attualmente in uso e con qualche affinamento, sarà probabilmente la strada percorsa dalle istituzioni europee. La ripresa in corso potrebbe aiutare a completare il quadro d’azione a livello europeo e innescare quel circolo virtuoso che da anni si vuole innescare.