Nella corsa alle presidenziali si possono individuare alcune dinamiche: dalla scomparsa dei partiti tradizionali alla polarizzazione estrema. Un dato emerge su tutti: la prossima presidenza sancirà il definitivo spostamento degli interessi statunitensi verso la Cina. Contributo di Gianluca Ansalone, docente di Geopolitica e Strategia Università di Roma.
Per accedere a questo contenuto
CONTRIBUTO a cura di Gianluca Ansalone, docente di Geopolitica e Strategia Università di Roma Tor Vergata e Campus Biomedico di Roma.
Fare previsioni è sempre un esercizio complesso. È diventato pressoché proibitivo in un’epoca storica in cui assistiamo a cambiamenti repentini e profondi in un lasso di tempo molto ridotto. Tuttavia non era così improbabile immaginare che il 2024 sarebbe stato un anno diverso dagli altri. Un anno super-elettorale, come lo hanno definito gli analisti, con 74 Paesi e più di metà della popolazione mondiale al voto. Alcune di queste elezioni hanno avuto un esito scontato. Altre sono state macchiate da violenze e fatti di sangue. Altre ancora hanno fatto segnare record storici di partecipazione, come in India, la più grande e popolosa democrazia del mondo. Senza dimenticare l’appuntamento cruciale dello scorso giugno che ha completamente rinnovato il Parlamento europeo, in un percorso che ci condurrà, a breve, all’investitura della nuova Commissione, chiamata a scelte determinanti per la competitività e la sicurezza del nostro Continente.
Sarebbe però retorico non ammettere che già da mesi e per i prossimi giorni tutti gli occhi saranno puntati sull’appuntamento elettorale più atteso: quello per eleggere il presidente degli Stati Uniti d’America.
Una corsa “rocambolesca”
La corsa alla Casa Bianca si sta svolgendo nella maniera più rocambolesca e drammatica possibile. L’attentato a Donald Trump durante un comizio e la rinuncia di Joe Biden a un secondo mandato hanno letteralmente acceso gli animi politici in America, reso il risultato più incerto, aperto la curiosità a valutare cosa sarebbe un secondo termine per il candidato repubblicano e cosa invece la prima volta di una presidente donna per i Democratici.
Prima ancora di entrare nel merito dei programmi elettorali e delle possibili implicazioni geopolitiche e strategiche, questa dinamica elettorale ci dice già molto su alcuni elementi strutturali, tipici ormai delle democrazie contemporanee e dunque non solo negli Stati Uniti d’America.
Scomparsa dei partiti politici tradizionali
Il primo dato è quello della scomparsa dei partiti politici tradizionali. Democratici e Repubblicani non sono più partiti di massa, non hanno più meccanismi di selezione delle classi dirigenti né anticorpi alla deriva “personalista” dei leader. Se da un lato Donald Trump ha potuto scalare il GOP in pochi mesi senza grosse resistenze, dall’altro il tira e molla di Joe Biden, con le pressioni al ritiro e le altrettanto forti resistenze, ci hanno consegnato la medesima immagine: quella di partiti non più in grado di svolgere la loro funzione di diaframma tra cittadini-elettori e governanti.
Polarizzazione
Il secondo elemento strutturale si chiama polarizzazione. È l’interpretazione della politica come contrapposizione di tifoserie e la demonizzazione dell’avversario, che diventa “nemico”. La polarizzazione estrema è nei toni della campagna elettorale, nei suoi contenuti, nell’uso spregiudicato e pervasivo delle fake news e nella manipolazione della realtà.
Le democrazie stanno dunque affrontando uno dei passaggi più delicati. E gli Stati Uniti d’America ne sono ovviamente al contempo il termometro e il megafono più importanti.
Le differenze tra Harris e Trump
Le differenze tra i due candidati in politica estera sono evidenti. Donald Trump non tollera guerre aperte, che potrebbero richiedere prima o poi un intervento diretto di soldati americani. In caso di vittoria, Trump tenderebbe ad accelerare una soluzione diplomatica in Ucraina, probabilmente basata sull’equazione “cessione di territorio contro ingresso immediato nella NATO”. Ciò consentirebbe alla Casa Bianca di sospendere gli aiuti militari a Kiev, una voce che pesa parecchio nei bilanci pubblici.
Trump farebbe altrettanto in Medio Oriente, con un approccio però meno pragmatico. Se la sua opinione sull’Europa e la sua sicurezza è stata resa chiara in più occasioni negli scorsi mesi, e dunque una soluzione diplomatica per l’Ucraina non sarebbe un favore alla Russia di Putin nella visione del mondo del candidato repubblicano, non altrettanto si può dire per la delicata questione del rapporto tra Israele e i suoi vicini. Trump potrebbe trovarsi presto di fronte a un dilemma strategico: da un lato sostenere coerentemente Israele, dall’altro sentire la pressione dell’orologio che corre e la necessità di veder concluse le operazioni militari a Gaza, in Libano e in Siria al più presto. Di certo nella visione di Donald Trump è l’Iran a rappresentare la principale minaccia alla pace e alla stabilità del Medio Oriente e dunque verso l’Iran sarebbero indirizzate le sue politiche, magari con nuove sanzioni internazionali o l’inasprimento delle condizioni di esportazione di petrolio e gas persiano.
Un candidato imprevedibile
Per il resto abbiamo già conosciuto il candidato repubblicano. In politica estera non esiste una “Dottrina Trump”. Esiste solo Trump, con la sua erraticità, la sua imprevedibilità, in alcuni casi la sua improvvisazione. Ciò che dovremmo aspettarci in primo luogo è un forte richiamo protezionistico all’economia e alla manifattura USA, con dazi fino al 20% su tutti i prodotti importati, a prescindere dalla loro provenienza geografica. E in secondo luogo un progressivo disimpegno americano dalla cornice di sicurezza europea, con la richiesta agli alleati di raggiungere al più presto la soglia critica del 2% sul PIL di investimenti militari. Rimane il punto cruciale della impostazione dei rapporti con la Cina. Il vecchio adagio per cui “dove passano le merci non passano gli eserciti” potrebbe rivelarsi profetico. Le tensioni commerciali tra Washington e Pechino potrebbero alzare la temperatura della competizione strategica, come già si avverte dai ricorrenti allarmi attorno all’integrità e alla sicurezza dell’isola di Taiwan, avamposto essenziale per la produzione di semiconduttori.
Il profilo di Harris
Rispetto alla imprevedibilità del candidato Trump, sappiamo invece di più di Kamala Harris. Tipicamente, ai vice presidenti è assegnata una delega peculiare nella gestione della politica estera e nei contatti con le Cancellerie. Harris non ha brillato in questi quattro anni per questo impegno, eclissata soprattutto dall’attivismo del sapiente e capace segretario di Stato Anthony Blinken. Ma è facile presumere che la sua postura sarebbe del tutto coerente con la tradizione dell’internazionalismo democratico e con le ultime mosse del presidente uscente Biden. Il supporto a Kiev verrebbe confermato o perfino rafforzato. Rimarrebbe un richiamo forte agli alleati europei della NATO a fare di più per la propria sicurezza e difesa, ma con toni probabilmente meno perentori e ultimativi.
Più complesso l’approccio verso lo scacchiere mediorientale. Le pressioni interne ai Democratici per una linea meno accondiscendente verso il premier israeliano Netanyahu si fanno sentire e Harris dovrebbe quindi gestire il malcontento del partito verso la sostanziale inerzia dell’attuale Amministrazione. Lo stesso Netanyahu sa di avere ancora a disposizione un mese per condurre operazioni militari nell’area senza alcuna conseguenza sostanziale da parte americana. Dopo le elezioni, chiunque sarà il vincitore, cambieranno i toni e le implicazioni e si dovrà necessariamente pensare ad una exit strategy rispetto al solo approccio militare.
In economia internazionale Harris continuerà a propugnare la necessità di fori internazionali di coordinamento delle questioni economiche e commerciali. Istituzioni oggi inceppate, come il WTO, andranno profondamente riviste ma saranno comunque essenziali per calmierare le tensioni e provare a proporre nuove norme di convivenza internazionale. Poche ma selezionate azioni protezionistiche su settori strategici come i semiconduttori serviranno a dare il segnale di una cura particolare per la competitività e la sicurezza nazionale, ma non ci sarebbero azioni indiscriminate o recrudescenze commerciali indistinte.
Spostamento dell’asse geopolitico
Un dato però emerge su tutti: la prossima presidenza, qualsiasi colore avrà, sancirà il definitivo spostamento dell’asse geopolitico americano dall’Atlantico al Pacifico. Un percorso già iniziato da Barack Obama anni fa e che oggi vede il suo naturale completamento. Un’area, quella del Pacifico, tanto carica di opportunità e di tensioni che darà vita ad un primo accenno di nuovo ordine mondiale dopo un ventennio di sostanziale, caotico disordine. Ne vedremo i frutti e i risultati solo tra qualche tempo.
Ma sempre di più questo frenetico XXI secolo assomiglia a quanto l’umanità ha già sperimentato nel XV secolo. Allora, la scoperta dell’America fece slittare gli interessi del mondo dal Mediterraneo all’Atlantico, mentre la stampa di Gutenberg sdoganò il sapere dalle buie stanze dei monasteri e favorì la nascita di quello che ancora oggi chiamiamo il “ceto medio”. Nei prossimi anni l’asse geopolitico si sposterà a Oriente definitivamente, mentre la diffusione di dati e nuove tecnologie aprirà a tutti un’arena digitale tanto eterea quanto pervasiva nella vita degli Stati e delle comunità.
Difficile fare previsioni, dunque. Ma facile comprendere come ci avviamo non a un’epoca di cambiamenti ma a un radicale cambio d’epoca. A partire dall’esito delle prossime elezioni negli Stati Uniti d’America.