Rubrica di opinione a cura di Claudio Barberis, head of asset allocation MoneyFarm.com.
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Il mercato dei titoli di Stato è quel luogo, ormai digitale, dove si fissa il prezzo al quale i governi finanziano nuovi debiti o rifinanziano vecchi debiti in scadenza. La ricchezza materiale degli Stati, la fiducia dei cittadini e il potere di emanare le leggi permettono ai governi di mantenere una costante situazione debitoria verso famiglie, investitori esteri o investitori istituzionali di vario tipo. In caso di difficoltà, le banche centrali nei sistemi finanziari più evoluti svolgono il ruolo di prestatori di ultima istanza per governi che perdono il supporto degli investitori privati. In tempi normali, il prezzo a cui gli Stati si indebitano varia nel tempo, come frutto di una trattativa continua tra chi presta e chi prende a prestito.
Vediamo nel grafico1 il tasso a 10 anni che il governo degli Stati Uniti ha pagato ai propri investitori negli ultimi cinquant’anni. Si passa da tassi oltre al 10% negli anni ‘80 a tassi inferiori al 2% oggi. Il tasso riflette spesso la situazione economica del momento in cui viene concordato: a periodi di inflazione (attesa) alta corrispondono tassi maggiori e viceversa. È infatti comprensibile che un finanziatore per prestare il suo denaro a qualcuno chieda una remunerazione almeno pari all’inflazione in cambio della scelta di non spendere i suoi risparmi. Negli anni ‘70 i tassi salivano perché gli investitori vivevano in un mondo di inflazione in continua salita e temevano la stessa inflazione per numerosi anni a venire.
Grafico 1. Dati MoneyFarm, Bloomberg.
Guardiamo però nel grafico 2 la relazione tra tassi a dieci anni e l’inflazione media realizzata nei dieci anni successivi all’emissione del titolo di stato. In questo caso la relazione tra tassi e inflazione è più sfumata ed evidenzia lunghe fasi storiche durante le quali si sono alternati momenti in cui gli investitori hanno fatto una pessima trattativa con un’inflazione realizzata più alta dei tassi fissati a inizio investimento (anni ‘60), a momenti in cui gli investitori hanno fatto un’ottima trattativa, ottenendo rendimenti molto maggiori dell’inflazione che poi si è realizzata (dagli anni ‘80 ad oggi).
Grafico 2. Dati MoneyFarm, Bloomberg.
Questo alternarsi di fasi in cui hanno avuto la meglio investitori o debitori non è casuale. Negli anni ‘50-‘70 i governi occidentali stavano ripagando il debito bellico e riuscire a remunerare poco in termini reali i propri investitori è stato uno degli strumenti con cui il debito è stato ridotto (oltre alla crescita, che ai tempi era alta). Il boom degli anni ‘60, la fine di Bretton Woods nel ‘71-‘73 e le crisi petrolifere portarono inflazione nel sistema, sorprendendo gli investitori. L’inflazione divenne sempre più crescente al punto che negli anni ‘70 i titoli di stato furono definiti “certificati di confisca”. Vennero poi gli anni ‘80. L’alta inflazione era diventata un problema generale, per tutti i protagonisti dell’economia (famiglie, imprese, governi): gli investitori ebbero finalmente una rivincita quando a partire dagli Stati Uniti la lotta all’inflazione divenne un tema popolare, perseguito a livello politico. Chi comprò titoli di Stato tra gli anni ‘80-‘00 ottenne rendimenti di gran lunga superiori all’inflazione che intanto scendeva. Il mercato dei bond era diventato nel frattempo fiorente, disponibile a finanziare debiti pubblici in crescita e dove il maggiore investitore veniva soprannominato “The Bond King”. Gli investitori obbligazionari sono riusciti per trent’anni a dettare il prezzo del denaro ai governi e a influenzarne le politiche economiche, al punto da definirsi “vigilantes”: una scelta di politica fiscale ritenuta sbagliata si traduceva in una bocciatura da parte dei mercati, con tassi (o spread) in rialzo.
Ma le sorti cambiano
Il calo dell’inflazione sta oggi diventando deflazione, un problema per gli Stati, le imprese e i consumatori, speculare a quello dell’inflazione negli anni ‘70. Il costo del debito, per quanto basso nominalmente, è troppo alto in termini reali per i governi più indebitati. La lotta all’inflazione degli anni ‘70 viene quindi oggi sostituita da una lotta alla deflazione: a livello politico e legislativo, la salita dei prezzi è un obiettivo perseguito esplicitamente. Il quantitative easing globale, fatto da tutte le principali banche centrali, è parte di questo tentativo coordinato di generare inflazione nelle economie sviluppate. Se negli anni ‘80 famiglie, governi e investitori obbligazionari stavano dalla stessa parte, chiedendo meno inflazione, questa volta siedono su fronti opposti. I governi, poco indebitati alla fine degli anni ‘70, potevano accettare un costo reale del debito alto negli anni ‘80. Oggi no. Che potere hanno oggi gli investitori in titoli di Stato di chiedere rendimenti alti, se questa lotta alla deflazione verrà vinta e tornerà l’inflazione? Poco. Dopo trent’anni di rally, molti investitori sono vincolati da mandati contrattuali e da una infrastruttura legislativa che li costringono a comprare ancora titoli di Stato che rendono poco o nulla. Il quantitative easing è pensato per creare inflazione, ma anche per tenere “artificialmente” bassi i rendimenti reali dei titoli di stato. Governi e banche centrali puntano a rifinanziare debiti ancora troppo alti a tassi bassi, spesso allungandone le scadenze. Gli investitori si trovano pertanto coinvolti in un’azione coordinata che li sta nel breve beneficiando, perché i prezzi dei titoli di Stato stanno salendo, ma difficilmente potranno reagire se l’inflazione tornerà a salire chiedendo tassi più alti. La battaglia sul debito pubblico, nel caso di economie finanziariamente evolute, non può che essere vinta da governi e banche centrali.