Mille trecento miliardi in cerca d’autore

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Commento a cura di Marcello Agnello, direttore commerciale di Assiteca SIM.

Oltre il 30% delle disponibilità finanziarie degli italiani, arrivate complessivamente alla ragguardevole cifra di 4.200 miliardi di euro, sono detenute su conti correnti, conti di deposito e addirittura in contanti. È solo colpa della scarsa educazione finanziaria, di tassi a zero, di un mercato immobiliare meno attraente rispetto al passato, oppure ci sono motivazioni più profonde che nessuno vuole indagare davvero?

La situazione economica è in miglioramento, i consumi stanno riprendendo, i mercati azionari godono di buona salute, una timida fiducia sembra far capolino, eppure a quanto pare materasso e conto corrente sono le scelte preferite dai risparmiatori: due italiani su tre non investono, come confermato anche dalle diverse indagini che anno dopo anno puntualmente setacciano umori e scelte al riguardo. Certamente tassi di interesse e mercato immobiliare, entrambi lontani dai loro massimi, hanno tolto agli italiani, da sempre poco avvezzi al rischio, i due porti storicamente considerati sicuri per gli investimenti (titoli di Stato e mattone), e sicuramente la poca educazione e informazione finanziaria non aiuta: ma che sia solo questo si fatica a crederlo. C’è il fondato sospetto che, oltre a ciò, a zavorrare di liquidità i portafogli dei risparmiatori ci sia prima ancora una mancanza di fiducia nel sistema dell’offerta bancaria e finanziaria.

A volo radente giova ricordare che la mala gestio di alcuni istituti di credito (Banca Etruria, Banca delle Marche, Carichieti, Cariferrara, Veneto Banca, Pop. Vicenza, citando le più recenti), ha scaricato sulle spalle di ignari risparmiatori ripetuti aumenti di capitale nel tentativo di tenere in vita aziende decotte; che spesso e volentieri gli investimenti suggeriti sono indirizzati a soddisfare più i conti economici degli intermediari che gli obiettivi dei clienti; e che quasi mai i vertici a capo delle banche che rischiano di chiudere i battenti pagano per responsabilità personali o oggettive. Quanto sono lontani i tempi in cui le banche facevano un altro mestiere, finalizzato principalmente a raccoglier denaro dagli uni per erogarlo agli altri, guadagnando giustamente sulla differenza di tasso tra le due attività, e quanto vecchio è il ricordo del direttore di banca che, insieme al prete e al sindaco, era portato in palmo di mano dalla comunità. Dove non bastasse, i consulenti finanziari, che operano ormai da quarant’anni e sono riconosciuti come categoria professionale da oltre venticinque, seppur ritagliandosi un proprio spazio non sono riusciti ad affermarsi fino in fondo e a conquistare nuove fette di mercato, costretti da logiche aziendali a vendere prodotti spesso di casa e costosi che non hanno permesso loro, nemmeno oggi, di crescere nel numero di clienti serviti, rimasto fermo alle cifre di dieci anni fa.

Cosa non torna quindi? Non torna la fiducia, che per essere data, piena e incondizionata, richiede una cosa sopra tutte: la certezza che chi si occupa di noi, sia per i soldi e quindi gli investimenti, sia per altri aspetti della vita quotidiana, tuteli i nostri interessi. È elementare in teoria, fin banale nella sua semplicità, eppure è così difficile da ottenere, in pratica. E quando il cliente, già scevro di cultura finanziaria e sprovvisto di altre armi per difendersi, percepisce o peggio capisce chiaramente che la persona di fronte a lui persegue altri interessi, rispetto ai suoi, non si fida e non investe. Da potenziale investitore torna risparmiatore, accumula sul conto corrente, riempie il materasso e le cassette di sicurezza. Non pesare correttamente questo aspetto trascurandone la portata è sciocco, attribuirlo esclusivamente all'assenza di educazione finanziaria è riduttivo, illudersi che basti la relazione personale è, per citare la battuta ironica di un famoso film, avanguardia pura. E quando vedo maldestri tentativi, di alcune aziende e dei loro consulenti, di accreditarsi presso gli investitori facendo leva sulle debolezze delle banche classiche di oggi (spesso enfatizzando i parametri di solidità patrimoniale imposti a livello europeo, per tutti il CET1), quando i clienti di quelle aziende sottoscrivono solo fondi e polizze vita, mi chiedo quanto miope sia il ragionamento: come se ulteriori e ancor più gravi problemi al sistema bancario li agevolassero invece di penalizzarli irrimediabilmente, travolgendoli insieme a quel che rimarrebbe.

Cosa ci riserverà l’immediato futuro non è dato sapersi, non mi sorprenderei se la situazione peggiorasse perfino. Da un lato i risparmiatori ai quali si imputa poca attenzione agli aspetti finanziari, poco tempo dedicato agli investimenti, poca voglia di approfondire, dall’altro le nuove norme in vigore da gennaio che sveleranno aspetti collegati agli investimenti mai emersi in precedenza: vuoi vedere che i clienti, già sfiduciati e in molti casi con rendimenti sotto benchmark, a fronte dell’evidenza dei costi sostenuti per quegli investimenti facciano una semplice considerazione? “Sai che c’è? Disinvesto e li metto sul conto, poi ci penso”. E tutto questo sperando che le Borse tengano, perché al primo stormir di fronde sui mercati, che manca da un po', non è così remota la possibilità che anche parte dei circa 3.000 miliardi di euro investiti in prodotti finanziari finisca in attività liquide.

La via di fuga esiste, ma non è perseguibile da un sistema prigioniero di se stesso: l’eliminazione del conflitto di interessi a favore di una vera consulenza minerebbe alle fondamenta il business sul quale finora si è retto, facendolo implodere. Tuttavia come non si ferma il vento con le mani così non si può impedire alla storia di fare il suo corso: nei mesi e anni a venire tutti, risparmiatori, banche, reti di vendita e consulenti, saranno messi davanti alla realtà dei fatti, spiacevole per alcuni, dura per altri. Da lì in poi, forse, quell’enorme liquidità troverà autori in grado di rappresentarne degnamente speranze e fiducia, senza che finisca in tragedia come nell’opera magna di Pirandello.