Tom Morris e Matthew Smith di Liontrust analizzano il contesto attuale e gli aspetti da monitorare attentamente. Contenuto sponsorizzato.
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Contributo a cura di Matthew Smith e Tom Morris, gestori di Liontrust. Contenuto sponsorizzato.
I dati economici di gennaio tendono sempre a mostrare una certa volatilità a causa dell’effetto della destagionalizzazione. Ad esempio, quest’anno la previsione di consenso per l’occupazione a gennaio era di +189 mila unità (su base destagionalizzata), ma il dato si è attestato a +517 mila unità, 328 mila più del previsto.
Una cifra molto elevata, che ha senz’altro fatto notizia. Ma l’economia americana ha perso numerosi impieghi a gennaio, perché i dipendenti assunti per fare fronte al picco di lavoro durante le feste sono stati licenziati con l’arrivo dell’anno nuovo. In realtà l’occupazione statunitense è diminuita di 2,5 milioni su base mensile a gennaio 2023. Per arrivare al livello destagionalizzato di +517 mila è stata effettuata una rettifica di oltre 3 milioni, di cui l’eccedenza di 328 mila rispetto alla previsione rappresenta appena il 10%. È molto probabile che si tratti solo di rumore statistico destinato a rientrare nei prossimi mesi, ma il dato superiore alle attese è bastato a spingere in forte rialzo i rendimenti obbligazionari. Dato che gli aumenti delle retribuzioni mettono sotto pressione i margini aziendali, le società inizieranno con tutta probabilità a ridurre drasticamente le nuove assunzioni.
A proposito di indicatori contrarian, sembra che le aziende siano riuscite a collocare sul mercato un livello record di emissioni azionarie nel 2021 proprio in concomitanza con il punto massimo delle quotazioni. Se dietro l’angolo c’è la coda di società pronte e nuove emissioni, di solito non è un buon segnale per i futuri rendimenti azionari. D’altro canto, la recente scarsità di nuove emissioni potrebbe essere di buon auspicio per i ritorni azionari.
Un fattore di rilievo che sembra contraddire la tesi ribassista sull’azionario è che gli utili aziendali sono ancora molto robusti, soprattutto in Europa. Bernstein sottolinea che le stime degli utili per azione (EPS) dell’MSCI Europe a 12 mesi sono inferiori ai massimi solo del 6%. Uno scenario ben diverso dalla disfatta che avevano previsto gli investitori e uno dei motivi principali alla base della tenuta del mercato azionario europeo. Bernstein segnala che lo stacco negativo è più contenuto rispetto alla riduzione media dell’EPS del 12% registrata durante i cicli di contrazione in Europa, un dato che si può interpretare in modi diversi.
A noi sembra un segnale positivo: dopo un decennio di difficoltà dovute alle politiche europee di austerità, le aziende del Vecchio Continente hanno complessivamente risanato i loro bilanci e sono molto più solide di quanto lo fossero alla vigilia del credit crunch del 2009, come dimostrano gli utili più elevati. Dopo aver superato la stretta creditizia e poi altre due ondate di crisi nella zona euro, le società europee hanno senz’altro imparato come gestire l’attività in un contesto impegnativo. Un contributo positivo è giunto anche dalla forza del dollaro, che incrementa il valore in euro dei ricavi generati all’estero.
Tre aspetti da monitorare
In questo momento ci sono tre aspetti potenzialmente preoccupanti che sarà importante monitorare attentamente.
- Gli incagli sui prestiti auto subprime sono in aumento negli Stati Uniti. Ciò significa che i consumatori con risparmi sempre più esigui iniziano ad avvertire il peso dell’elevata inflazione e dei tassi di interesse più alti.
- Le banche americane stanno inasprendo i criteri di concessione dei finanziamenti, in particolare per quanto riguarda le carte di credito e i prestiti alle piccole imprese. Nel complesso, questa dinamica avrà un impatto negativo sui consumi e sugli investimenti.
- Il mercato immobiliare a livello globale è sotto pressione: quello residenziale a causa dei rialzi dei tassi e quello commerciale per via del crollo dell’occupazione degli uffici. Ad esempio, a Manhattan il tasso di occupazione degli uffici è ancora solo del 54% e il tasso di sfitto è balzato al 22%, quasi il doppio rispetto alla media storica. È probabile che nei prossimi anni si registri un aumento delle perdite su crediti nel segmento degli immobili commerciali, anche se riguarderà più gli investitori che le banche, dato che l’esposizione è in gran parte cartolarizzata.
In tutti e tre i casi, il principale elemento a favore è la bassa disoccupazione.
Tutte e tre queste dinamiche indicano che l’economia reale inizia a percepire gli effetti della politica restrittiva della Fed e quindi il picco dei tassi potrebbe essere molto vicino. È per questo che, dopo un adeguamento dei livelli dei future sui Fed fund, la banca centrale americana potrebbe finire per tagliare i tassi più velocemente del previsto.