Rubrica di opinione a cura di Claudio Barberis, responsabile Asset Allocation di MoneyFarm.com
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Non è passata inosservata la recente dichiarazione di J.Yellen, governatore della Fed, secondo cui il mercato azionario americano potrebbe essere sopravvalutato [1]. Anche in Italia il presidente della Consob si è recentemente soffermato su questo tema. La dichiarazione di J.Yellen ha fatto alzare le antenne a molti operatori che attendono per i prossimi mesi un rialzo dei tassi da parte della Fed, dopo anni di tassi zero. Si tratterà di un rialzo di piccole dimensioni ma di enorme significato: la banca centrale americana sarà la prima ad intraprendere un sentiero di uscita da un’epoca monetariamente estrema, con tassi bassi, quantitative easing e altre iniziative di emergenza. La reazione dei mercati all’effettivo rialzo dei tassi sarà tutta da scoprire: è un evento ampiamente annunciato, ma i suoi effetti sono ignoti ai più. Non sono infondate le tesi, supportate da alcune analisi storiche, di chi sostiene che un rialzo tassi forse può essere letto in senso positivo, almeno nelle prime fasi.
In attesa del rialzo dei tassi, i mercati ascolteranno il monito preventivo della Fed? Per il momento no: le ultime due settimane si sono chiuse con un ulteriore rialzo dei mercati azionari per cui, a parte qualche titolo di giornale, queste dichiarazioni hanno avuto poco effetto. Per gli amanti della storia finanziaria, le parole della Yellen non sono un caso unico. Era il 1996 quando Greenspan, il banchiere centrale più idolatrato di sempre (all’epoca), parlò per la prima volta di esuberanza irrazionale sui mercati azionari. Fu una dichiarazione prematura. Fidarsi dell’analisi di Greenspan e ridurre la propria esposizione ai mercati azionari sarebbe stato un errore imperdonabile per un investitore: dal 1996 al 2000 si ebbero quattro ulteriori anni di salita dei mercati. Non a caso, l’espressione sarebbe diventata famosa solo più tardi, titolo di un libro di B. Shiller pubblicato nel 2000, poco prima della caduta dei mercati azionari.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel 1996: scoppio della bolla tech nel 2000, 11 settembre 2001, crisi bancaria del 2008, crisi dell’Eurozona nel 2012. E tanto è stato scritto sulle crisi, soprattutto su come affrontarle. Libri scritti da economisti, da giornalisti e da tecnici impegnati nell’azione di risposta alla crisi. Stress Test di Tim Geithner è sicuramente il libro più lucido e dettagliato sulle scelte fatte dall’amministrazione americana per combattere il disfacimento del sistema nel 2008. M.Wolf, economista e giornalista del Financial Times, ha scritto sui meriti dell’America post crisi e i demeriti dell’Europa.
Sulla gestione delle crisi alcune questioni procedurali sono ormai di comune accettazione.
La crisi del 1929 ha insegnato qualcosa: le Banche Centrali e i governi devono essere espansivi nel momento di massimo shock finanziario, il risanamento del sistema non può essere fatto nella fase di maggior tensione ma deve venire in seguito… L’eccesso di austerity in Eurozona, la lentezza nel prendere decisioni, l’incapacità di coordinare un intervento politico unitario in tutta l’area Euro, sono visti oggi da molti come un errore netto, una risposta sbagliata a situazioni di crisi già viste e gestite altrove. Come dice in un bel libro B. Eichengreen (Hall of Mirrors, 2014), massimo esperto di storia finanziaria, la crisi del ‘29 se non altro ha insegnato qualcosa per quanto concerne la gestione dei momenti di emergenza.
Purtroppo né la crisi del ‘29, né la Grande Recessione del 2008 hanno portato a nuovi approcci su come prevenire le crisi dei mercati. Le recenti parole della Yellen sono un tentativo di trovare un ruolo per la banca centrale nel momento in cui si forma una bolla o comunque si iniziano a vedere i sintomi di qualcosa di simile. Come se l’instabilità fosse qualcosa di inevitabile o innato dei mercati e qualcuno debba sentirsi in dovere di intervenire. Il fatto che i sintomi di una crisi si trovino nei tempi di prosperità è opinione diffusa, ma purtroppo non si sa molto di più su chi debba intervenire e se debba farlo. L’intervento della Fed nel 2008 e negli anni successivi e il QE durato fino al 2014, vedono un consenso di fondo da parte degli analisti: tutti d’accordo sul fatto che gli economisti della banca centrale possano riconoscere il momento in cui il prezzo del rischio sui mercati è ingiustificatamente alto e quindi intervenire. Ma non c’è altrettanta convinzione sulla capacità della Fed di individuare bolle o eccessi sui mercati, di capire quando l’elevato prezzo degli asset rischiosi possa trasformarsi in un rischio per le nostre economie.
Molto si è parlato e fatto in termini di politiche macro-prudenziali, interventi preventivi, regolamentazione e controllo di chi opera sui mercati. Ma sette anni dopo l’inizio della crisi le parole della Yellen sono ininfluenti quando si tratta di identificare bolle o eccessi, diversamente dall’enorme peso che hanno nei momenti di crisi: forse hanno ragione i mercati a non ascoltare queste parole, perché quando si tratta di crescita gli “animal spirits” hanno intuizione e innovazione che nessuna istituzione o modello economico può prevedere. In questa fase storica, la Fed non può e non deve essere il principale interlocutore dei mercati.
Le valutazioni di molti indici azionari globali si trovano su livelli medi o alti a seconda dei punti di vista, e nessuno li considera a buon prezzo, ma questa situazione potrebbe durare ancora a lungo. Lo stesso dicasi per molti mercati del credito, high yield e corporate investment grade. Il prezzo dei titoli di stato di tutto il mondo è invece talmente alto che basta poco per far venire le vertigini agli operatori, con ondate di volatilità impressionanti: curioso che di questa potenziale “bolla” la Fed non parli.
Le parole della Yellen in questo contesto pesano poco, ma almeno per le cronache questa dichiarazione di maggio 2015 deve essere un momento da ricordare.