Rubrica di opinione a cura di Giovanni Buffa, gestore di AcomeA SGR.
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In una classifica teorica delle banche più gradite tra gli investitori quelle giapponesi probabilmente non rientrerebbero nelle prime posizioni. Il sistema bancario nipponico, per usare un eufemismo, non gode infatti di una buona reputazione. La storia ci aiuta in parte a capirne i motivi: dopo lo scoppio della bolla degli anni 90 le banche del Sol Levante hanno vissuto un decennio difficilissimo caratterizzato da fallimenti, svalutazioni complessive per oltre 800 miliardi di dollari, salvataggi statali e non performing loans in continua ascesa che hanno fatto molte vittime e spinto il settore a consolidarsi. Le performance di Borsa, ad esclusione degli ultimi 2 anni, sono state deprimenti con l’indice settoriale crollato dagli 854 punti del luglio 1996 ai minimi di 96.1 del maggio 2012. Dopo 25 anni dall’insorgere della crisi, anche se i crediti deteriorati oggi non sembrano costituire un problema (almeno apparentemente), molte criticità continuano a pesare sulle valutazioni del settore: basso livello di redditività, crescita domestica anemica, alta competizione nel mercato locale, “caliginosa” corporate governance in un contesto di un’economia domestica che fatica a scrollarsi di dosso un decennio di deflazione. Quest’ultima ha conseguenze particolarmente nefaste per i titoli finanziari nipponici (sia bancari che assicurativi): il continuo appiattimento della curva dei rendimenti (complice anche il QE della Bank of Japan) rende il modello di business delle banche giapponesi molto complicato, in quanto riduce il differenziale di interesse tra gli impieghi (generalmente a lungo termine) e le fonti di finanziamento (principalmente depositi), ovvero una delle principali voci del conto economico.
Nel nostro portafoglio attualmente deteniamo circa il 7% di banche commerciali giapponesi: principalmente banche internazionali (cosiddette megabank) tra cui spiccano Mitsubishi UFJ e Sumitomo Mitsui, con alcuni singoli investimenti in selezionate banche regionali più focalizzate sull’economia domestica (come la 77 Bank).
Quali sono le ragioni di questa scelta?
Anzitutto fughiamo subito alcuni dubbi: la nostra vision sull’Abenomics è ancora abbastanza conservativa. Pur avendo esposizione su alcuni titoli legati alla crescita interna, riteniamo che molto debba essere ancora fatto affinché l’Abenomics possa funzionare, soprattutto in termini di crescita reale dei salari.
Perché dunque investire nelle banche giapponesi?
Il motivo principale è che le più grandi banche giapponesi sono meno giapponesi di quel che si pensi. Consideriamo ad esempio Mitsubishi UFJ (MUFJ), la più grande banca nipponica con una capitalizzazione di mercato di quasi 80 mld di € e con attività per oltre 2,1 mld di €. Il loan book estero (principalmente Usa e sud est asiatico) all’ultima trimestrale rappresentava più del 26% del totale dei prestiti con una crescita degli stessi di circa 4x superiore a quella domestica (circa 10-15% all’anno). In sostanza, a fronte di un mercato domestico stagnante e ultra competitivo (il prime rate dei mutui a tassi fisso a 10 anni è recentemente sceso sino 0.85%), le banche giapponesi hanno diversificato e continueranno a diversificare all’estero rendendole più global banks che istituti strettamente nipponici. Il segmento delle commissioni potrebbe inoltre beneficiare dell’aumento dell’attività di corporate banking da parte dei clienti favorito dal miglioramento della redditività delle aziende nipponiche e non (MUFJ possiede, a titolo di esempio, il 22% di Morgan Stanley). Le valutazioni poi sono ancora attraenti (0.73 il book per MUFJper esempio) con un Roe in miglioramento e Npl in riduzione, mentre a livello di requisiti di capitale le aziende appaiono ben capitalizzate anche in vista dell’adozione di Basilea 3.
Un ulteriore catalyst potrebbe essere rappresentato dalla vendita delle stake che questi istituti ancora detengono in molti conglomerates giapponesi (MUFJ possiede il 7% circa di Honda Motor, il 7% di Central Japan Railways, il 5% di Canon, 1,5% di Toyota etc) che rappresenterebbe una forte rottura con il passato e un grande segnale nella direzione di una più sana ed efficiente corporate governance. Ma forse è ancora un pò presto per parlarne. Nel nostro portafoglio sono presenti anche alcune banche regionali che, a differenza delle sorelle maggiori, non hanno praticamente esposizione estera. In questo caso le scelte di investimento risiedono più in specifiche sui singoli titoli che su temi di settore. Per esempio la 77 Bank, su cui abbiamo una posizione, è la principale banca della regione di Tohoku (la più colpita dallo tsunami del 2011) e che potrebbe avvantaggiarsi enormemente dalla nuova fase di ricostruzione dell’aerea più orientata agli investimenti privati.