Secondo dietrofront della Fed all’orizzonte data l’impennata delle preoccupazioni sulla crescita

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Phil Milburn, Head of Investment Strategy (Global Fixed Income), Liontrust

Commento a cura di Phil Milburn, head of Investment Strategy (Global Fixed Income), Liontrust. Contenuto sponsorizzato.

La nostra ultima tesi economica centrale si basa sull’idea che le preoccupazioni per la crescita si siano spinte troppo oltre negli ultimi mesi; siamo convinti che la costante dipendenza dal “put” della Banca centrale sia imprudente e che l’aumento delle pressioni inflazionistiche indurrà la Federal Reserve a una nuova svolta della propria politica nel corso dell’anno

Quest’idea è fondata sulla convinzione che la crescita mondiale stia attraversando una fase di debolezza ma non siamo a fine ciclo. Il contesto macroeconomico si è biforcato, con l’attività manifatturiera che ha mostrato segnali di debolezza negli ultimi due trimestri, mentre occupazione e consumi sono rimasti molto solidi.

In questa situazione riteniamo che la politica dei tassi di interesse a livello globale sia troppo rilassata per le attuali condizioni economiche e, nel caso in cui i dati continuino a migliorare e si risolvano i problemi commerciali e quelli legati alla Brexit, i tassi statunitensi dovrebbero salire verso la fine dell’anno. Le banche centrali sono comunque diventate estremamente dovish e, mentre molti membri votanti dei rispettivi comitati concorderanno probabilmente con la nostra tesi della “fase di debolezza”, le voci più importanti sono quelle da colomba. Se la Federal Reserve non interviene al rialzo sui tassi verso la fine dell’anno, la situazione potrebbe farsi pericolosa.

Inoltre riteniamo che molte cattive notizie siano scontate nei prezzi delle obbligazioni, dato che oggi i mercati finanziari scontano due tagli dei tassi USA entro la fine del 2020 quando, solo pochi mesi fa, si prevedevano almeno due rialzi. I tassi britannici ed europei hanno spinto i rendimenti reali in territorio negativo, cosa che ha poco senso e si scontra con un mercato obbligazionario che ha alle spalle una storia di 500 anni.

Comprendere le ragioni di questa debolezza dell’attività manifatturiera è fondamentale per poter concluere che ci sarà un recupero, e che il settore manifatturiero non impatterà negativamente anche quello dei servizi. A onor del vero, questo è in gran parte dovuto alle politiche del presidente Trump. La continua minaccia delle guerre commerciali non è priva di effetti e in questo caso riteniamo che le imprese abbiano fatto parecchio front running sui dazi.

In secondo luogo, c’è un aspetto di fiducia legato ai dazi e all’attività economica globale. I livelli dell’attività globale dipenderanno in gran parte dalla capacità della Cina di rilanciare efficacemente la crescita e, con i suoi 50,5 punti (ove un dato pari o superiore a 50 è generalmente indice di un’espansione dell’economia), il recente livello dell’Indice dei direttori d’acquisto (PMI) mostra i primi incoraggianti segnali di ripresa.

Dunque i magazzini si svuoteranno e il settore manifatturiero recupererà?Se i consumi restano a questi livelli, la risposta è sicuramente affermativa.  I consumi hanno ritracciato leggermente dai massimi, ma la spesa per il consumo è ancora in crescita e l’espansione del PIL nominale globale procede a un ritmo del 5% annualizzato. Anche se dopo aver quasi raggiunto i 140 punti, la fiducia dei consumatori USA è scesa a quota 124,1 (secondo l’indicatore del Conference Board), questo livello risulta ancora nettamente superiore alla media. Il mercato del lavoro statunitense sti sta restringendo, mentre l’inflazione salariale al 3,2% e il crescente tasso di partecipazione rappresentano fattori discretamente propizi per i consumatori. 

Una situazione simile si riscontra in tutte le altre economie dei mercati sviluppati e le previsioni per la crescita globale del PIL reale nel 2019 (pari al 2,8% rispetto al 3,2% nel 2018) sono ancora intorno al tasso tendenziale. Ovviamente la distribuzione geografica di questo rallentamento non sarà uniforme e si potrebbe raggiungere un punto critico del mercato se un Paese molto indebitato (come l’Italia) si trovasse un’altra volta in recessione.

Pur sapendo di non essere in linea con il consensus, siamo più preoccupati per l’inflazione che per la crescita. L’inflazione primaria globale è scesa durante lo scorso anno dal 2,6% al 2%, con l’inflazione inerziale che è salita al contempo dall’1,8% al 2,0%. 

L’inflazione dei salari è al 2,8% nei mercati sviluppati nel loro complesso, ma in questo tipo di contesto i tassi reali ufficiali non dovrebbero essere negativi. La Fed ha ipotizzato di lasciar salire l’inflazione sopra il target del 2% per un certo periodo di tempo, un meccanismo che potrebbe ristabilire indirettamente il livello del PIL nominale. Tuttavia, quando i funzionari parlano apertamente di una gestione rilassata dell’inflazione al 2,5%, siamo convinti che gli obbligazionisti non dovrebbero dormire sonni tranquilli. 

Il presidente della Fed Jerome Powell ha chiarito che intende lasciar “scaldare” l’inflazione per un po’ di tempo in modo da mostrare la simmetria del suo target del 2%. Quest’approccio tanto accomodante assunto dalla Fed è pericoloso sul lungo periodo in quanto si rischia che l’aumento dell’inflazione sia sempre più integrato nell’economia statunitense. 

Come hanno già apertamente dichiarato, i policymaker statunitensi sono preparati ai rischi legati all’aumento dell’inflazione e una crescita eccessiva, da cui trarrebbero vantaggio gli asset rischiosi. Tuttavia, se (e ribadiamo se) la crescita e l’inflazione sfuggissero al controllo dei policymaker e dovessero formarsi bolle degli asset, le Banche centrali sarebbero costrette a intervenire in maniera molto più aggressiva rispetto a quanto normalmente necessario. Più tempo richiederà la normalizzazione della politica monetaria, maggiore sarà il rischio di dover intervenire più pesantemente in un momento successivo.