Serve un nuovo intervento normativo per sollevare il destino dei PIR?

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Luigi A.M. Rossi, Avvocato, Dottore Commercialista Associate, Loconte & Partners – Milano.

Contributo a cura di Luigi A.M. Rossi, Avvocato, Dottore Commercialista, Associate, Loconte & Partners – Milano.

Il fenomeno dei PIR, dalla loro introduzione con la Legge di Bilancio 2017 (L.232/2016), ha conquistato subito una posizione di rilievo, catturando non solo l’attenzione dell’industria del risparmio gestito e dei privati, ma dello stesso Legislatore che ha sempre introdotto ripetuti (e mancati) tentativi di miglioramento dello strumento, prima con la Legge di Bilancio 2018 e successivamente con la Legge di Bilancio 2019. 

Con il senno di poi sarebbe stato opportuno lasciare tutto com’era dato che, in trenta mesi e tre interventi normativi, abbiamo assistito ad una rapida ascesa a cui ha fatto seguito una altrettanto rapida (e ripida) discesa. 

Un buon inizio

Lo sprint in partenza è facilmente spiegabile, in primo luogo, per lo speciale regime fiscale che senza dubbio costituisce il driver che meglio influenza i risparmiatori in sede di scelta di allocazione degli asset: a fronte di un holding period di 5 anni, è prevista la detassazione totale ai fini delle imposte dirette (redditi di capitale e capital gain provenienti dall’investimento), nonché l’esenzione dall’imposta sulle successioni. 

I limiti quantitativi all’investimento (30mila euro annui per un limite complessivo di 150mila euro) dimostrano che il prodotto sia stato principalmente concepito per il risparmiatore retail, che ha guardato allo strumento con grande favore – e qui sta la seconda ragione del successo dei PIR - essendo stata apprezzata l’idea di poter canalizzare gli investimenti direttamente nell’economia reale, puntando sulle PMI italiane e partecipando così allo sviluppo economico del Paese. 

Terzo motivo, ne va dato atto, è rappresentato dal pregevole lavoro svolto dagli intermediari che hanno saputo canalizzare le risorse dei risparmiatori, consentendo di strutturare i portafogli con il ricorso a questo strumento, in un’ottica di efficace diversificazione.

Il risultato è qualificato dagli ottimi numeri: 15 miliardi circa nel biennio 2017/2018 (rispettivamente 11 e 4), con aspettative di raccolta complessiva nel primo quinquennio (2017/2021) che si attestavano attorno ai 68 miliardi.

Una favola felice che però è stata bruscamente interrotta dalla Legge di Bilancio 2019 (L. 148/2018) che ha introdotto delle novità di rilievo, connotando i PIR di caratteristiche e funzioni decisamente insolite rispetto alla versione precedente.

La riforma operata con la Legge di Bilancio

Dal 1° gennaio 2019, i PIR 2.0 dovranno concorrere annualmente con un investimento (pari al 3,5% del valore complessivo delle masse raccolte) in strumenti finanziari emessi da aziende quotate su Aim e, (per la stessa misura), in quote o azioni di fondi per il venture capital

Se da un lato la scelta del Legislatore è stata chiara e coerente con l’obiettivo di rafforzare il comparto dell’innovazione (che la manovra ha voluto fortemente favorire), dall’altro è stato forse sottovalutato che i PIR di nuova generazione sarebbero stati caratterizzati, all’indomani della manovra, da un profilo di rischio decisamente più elevato rispetto alla struttura dei piani sottoscritti nel 2017 e 2018. 

Ciò che non ha convinto era proprio la previsione della destinazione vincolata delle somme raccolte a favore del finanziamento del rischio. Previsione, tra l’altro, indirizzata ad uno strumento che nella sua versione originale era rivolto ai piccoli investitori i quali, proprio grazie ai PIR, si sono avvicinati all’industria del risparmio gestito senza però mai associarli all’idea di investimenti rischiosi ed illiquidi. 

Come se ciò non bastasse, la Legge di Bilancio 2019 ha subordinato l’attuazione delle nuove caratteristiche ad un decreto attuativo che, nelle more della sua emanazione (avvenuta con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dello scorso 7 maggio), ha completamente paralizzato la raccolta, confermando dopo lunghi mesi di attesa tutti i vincoli di destinazione del fondo, che si sperava quanto meno potessero essere raggiunti in maniera graduale, per ottenere la qualifica di PIR compliant.

Il risultato è qualificato da pessimi numeri: stime di raccolta per il 2019 attorno al miliardo, due miliardi previsti per il 2020, con un picco di circa tre miliardi nel 2021, che verosimilmente chiuderà il quinquennio (2017/2012) con 20 miliardi di flussi netti, contro i 68 stimati giusto unno fa.

Andamento e prospettive attuali

La beffa è che intanto i risultati della gestione dei fondi PIR hanno evidenziato guadagni compresi in una forbice dal 3,6 al 20% solo nel primo quadrimestre 2019, nel periodo quindi caratterizzato da un raccolta del tutto piatta, stante l’incertezza determinata dall’assenza di conferme sulle nuove caratteristiche dello strumento. Tali nuove caratteristiche investono solo i “nuovi PIR”, non essendo la norma che li ha modificati retroattiva, e che ha quindi disegnato un mercato (altra anomalia) con prodotti all’apparenza uguali, ma sensibilmente differenti nella struttura compositiva in ragione della loro sottoscrizione pre o post riforma.

Lo scenario potrebbe essere integrato da un nuovo intervento, in quanto con l’articolo 6 del decreto attuativo, il Ministero dello Sviluppo Economico espressamente dichiara che, decorsi sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto “provvederà a monitorare gli effetti dei prodotti dalla normativa intervenuta con la Legge di Bilancio, per valutare sia l’entità della raccolta e il numero di negoziazioni, e sia valutare l’opportunità di interventi normativi ulteriori”.

Monitoraggio che si rivela senza dubbio necessario allo Stato, in quanto, non possono dirsi superate le perplessità generate dai PIR di nuova generazione, che si trovano in una evidente situazione di stallo che rischia di trovare soluzione con il ripiego su altri strumenti finanziari, disegnando una conclusiva parabola discendente che, ovviamente, nessuno si augura.